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Italia, Piemonte, Vercelli

NESSUNO SI ASPETTA L’INQUISIZIONE SPAGNOLA

Il gran teatro del Mondo…

Dici Barocco e la mente corre subito allo sfarzo e alla magniloquenza.
Ori, stucchi, decorazioni.
Affettazione e frivolezza.
Horror vacui e volontà di stupire.

Tutto vero, ma non solo.

Perchè l’avvento del Barocco coincide con l’età della riforma e della controriforma.
Delle guerre di religione che per quasi due secoli hanno insanguinato l’Europa.
Un clima cupo, di intransigenza religiosa,di censura e d’inquisizione.

Un periodo in cui la chiesa cattolica perde potere a Nord-Ovest sotto i colpi della riforma protestante e nello stesso tempo è minacciata a Sud-Est dagli Ottomani che controllano fermamente i luoghi santi mentre consolidano il loro dominio sui Balcani.

Insomma, da una parte i protestanti propongono una visione del cristianesimo innovativa e dirompente – eretica, secondo il Papato – e dall’altra i continui scontri con l’impero Ottomano impediscono ai cattolici europei i pellegrinaggi in Terrasanta.

I Sacri Monti arrivano in questo contesto.
Riproduzioni in scala dei luoghi del Vangelo. Surrogato del pellegrinaggio in Palestina e, contemporaneamente, strumento per propagandare e mantenere l’ortodossia del racconto evangelico.

La cattura di Gesù

Crea, Orta, Varese, Oropa, Ossuccio, Ghiffa, Domodossola, Valperga.
Tra la fine del ‘500 e i primi anni del ‘700 in Piemonte e in Lombardia, nelle zone dove era più forte il pericolo protestante, i Sacri Monti Barocchi spuntano come funghi ricalcando il prototipo creato all’inizio del sedicesimo secolo qui, a Varallo Sesia.

Tutti insieme, dal 2003, costituiscono il Sito Unesco dei Sacri Monti Barocchi del Piemonte e della Lombardia.

La Varallo del ‘500 è zona di confine tra il Ducato di Milano e la Savoia, apparentemente periferica.
Ma tra Patari, Umiliati, Cataro-Albigesi, Zelanti, Dolciniani, Apostolici e Valdesi, già da qualche secolo la chiesa cattolica non aveva gran che da star tranquilla.

E con i protestanti a due passi, appena oltre le alpi, a partire dal tardo ‘500 la situazione non poteva che farsi via via più tesa.

E così il progetto del Sacro Monte, sostenuto con forza dal Cardinale Carlo Borromeo (no, non è quello dei Promessi Sposi, quello è suo cugino Federico) acquista una fondamentale importanza dottrinale.
Non più semplice riproduzione dei Luoghi Santi ma vero e proprio catechismo tridimensionale.

Anche perchè il buon cattolico non ha mica una Bibbia in Italiano da leggersi prima di dormire, è robaccia da protestanti quella…

Visitazione

Arrivo a Varallo nella tarda mattinata.
È solo il primo weekend di primavera, ma il termometro della farmacia segna quasi trenta gradi.

Incosciente come solo un motociclista ad inizio primavera sa essere, guardo con sdegno la stazione della funivia e, scuotendo la testa, mi incammino sulla strada lastricata che sale sulla collina.

Il Frate Bernardino Caimi, fondatore del santuario, aveva fatto le cose a modino, devo dire.
Dovendo riprodurre i luoghi santi ha scelto una collina che potesse in qualche modo ricordare il Calvario.

Sono poco più di duecento metri di dislivello, ma quando arrivo in cima sono uno straccio.
Affannato. Madido di sudore. Incurante della sanità del luogo impreco a mezza bocca contro la giacca, che pesa una tonnellata e non entra nello zaino, contro il sole, contro la salita e soprattutto contro di me che non ho voluto prendere la funivia per risparmiare quattro euro.

E la salita a piedi non mi vale, a quanto pare, nemmeno un’indulgenza plenaria…

La Magnolia e la cappella

Poco male, bevo un sorso d’acqua, varco il portone e inizio la mia visita.

Ogni cappella, ogni stazione, racconta un momento diverso della storia di Gesù, dal peccato originale (inteso come la ragione della stessa venuta di Cristo sulla terra) sino alla resurrezione.

Il Sacro Monte che vediamo oggi è il risultato di quattro fasi artistiche e ideologiche profondamente diverse.

Parte della struttura architettonica delle cappelle risale alla fine del ‘400, al progetto di Nuova Gerusalemme ideato dal francescano Bernardino Caimi.
Un secondo strato è quello curato da Gaudenzio Ferrari nella prima metà del ‘500.
Galeazzo Alessi, nel tardo ‘500, prende le redini della fabbrica del Sacro Monte sulla scorta del progetto del Borromeo.
Infine il ‘600. Sotto la direzione del vescovo Carlo Bascapè, già collaboratore di San Carlo, Giovanni D’Errico, il Tabacchetti, il Morazzone e molti altri grandi artisti del tempo si adoperano per riorganizzare integralmente e completare l’opera, adattandola definitivamente agli indirizzi spirituali del Concilio di Trento.

La cattura di Gesù

Una caratteristica comune a tutti e quattro i periodi è lo straordinario naturalismo delle statue. Madonne, Cristi, apostoli… Tutti modellati, chiaramente, su modelli reclutati nella zona. Potrebbero essere i trisavoli del barista, del parroco, del farmacista del paese.

Il vecchio Giuseppe, segnato dal tempo e dal lavoro. La samaritana al pozzo, con le sue guance rubizze per l’aria frizzante di montagna e le braccia muscolose da lavoratrice.
O, ancora, il bambinello portato alla circoncisione. Bianco e vermiglio, come nella canzone di De Andrè, in braccio ad una madre di cui pare di sentire il pesante accento vercellese.

Circoncisione (Madonna con Bambino)

Le cappelle sono protette da cancellate e vetrate. Spesso c’è solo un piccolo varco da cui osservare la scena. E quasi sempre è piazzato ad altezza nanica. O forse all’altezza di un pellegrino inginocchiato?

Fatto sta che dopo pochissime stazioni mi esplode una cervicale mostruosa.

Giuseppe alla natività

La stratificazione di diversi periodi artistici è il motivo per cui in certe cappelle l’ambientazione è incoerente rispetto alla scena raccontata.

Lazzaro, per dire, esce dal sarcofago – grazie ai buoni uffici di un Gesù che pare il bassista di un gruppo stoner – in una sala sontuosa, piena di gente vestita a festa. Non esattamente quello che ti aspetti da un funerale.

La resurrezione di Lazzaro (Gesù)

Una signora, intenta a sgranare un rosario le cui perle continueranno a scorrere per tutta la nostra conversazione, mi spiega che in origine la cappella era dedicata alle nozze di Cana ma quando a fine ‘500 fu trasformata nella scena odierna, gli affreschi di Gian Giacomo Testa rimasero sulle pareti.

La resurrezione di Lazzaro

– Mi spiace che lei ora lo vede così, con tutte le statue polverose e in disordine. Sa, non c’è più la manutenzione che c’era quando ero bambina.
– Beh, ma adesso con l’Unesco saranno arrivati degli investimenti, no? Ho visto che la cappella della strage degli innocenti è in restauro.
– Oh mamma… non mi parli dell’Unesco. L’Unesco è un’istituzione anticristiana per definizione. Loro vogliono ridurre il Sacro Monte ad un museo, ma questo è un santuario. Altro che professori e guide turistiche, qui servirebbero i preti.

Proseguiamo la conversazione affrontando la messa postconciliare (Gli esorcisti dicono che la messa in latino piace a Dio, quella in volgare piace al Demonio, che la usa per entrare nelle menti dei fedeli) e sfiorando la situazione della chiesa italiana (il problema, caro Lei, è che in Italia ormai la Chiesa non conta più nulla. È che manca un’intellighenzia cattolica che sappia orientare la politica nel segno dell’ortodossia. E i veri fedeli sono costretti a guardare all’estero).

Ci salutiamo (insiste per darmi due baci sulle guance) e mi allontano con i brividi lungo la spina dorsale, sapendo che l’estero a cui si riferisce è, con ogni probabilità, la Polonia di Radio Maryja.
Lei resta lì a sgranare i suoi rosari pregando anche, immagino, perché io rinsavisca dal mio folle ateismo.

Quanto alla mancanza di importanza della Chiesa nella vita politica del Paese, pochi mesi dopo un Ministro della Repubblica avrebbe baciato il rosario e invocato il cuore immacolato di Maria in un’aula parlamentare senza essere sottoposto ad un TSO.
Temo che la mia signora varallina ne sarà stata piacevolmente impressionata.

Lamentazione sul Cristo Morto

Le quarantaquattro cappelle si susseguono con un ritmo serrato.
Ad impressionarmi di più sono le cappelle che ritraggono momenti intimi, come la Natività, con un Giuseppe vecchio, stanco ed angosciato o il commovente compianto sul Cristo morto, e scene quotidiane come quella della Samaritana al pozzo dove un giovane Gesù siede appoggiato all’orlo del pozzo in una posa che non ha nulla di costruito o di ieratico.

Gesù al pozzo

Ma sono affascinanti anche le scene più epiche, come l’arrivo dei Magi a Betlemme con un codazzo di servitori, cavalli e cammelli o la caleidoscopica azione di massa, con centinaia di figure e dettagli minutissimi, della salita al Calvario.

Salita al calvario

Il percorso culmina, giunti sulla cima della collina, con la Crocifissione di Gaudenzio Ferrari.

Crocifissione

Una sorta di opera d’arte totale in cui gli affreschi e le statue si fondono al punto che non è quasi possibile capire dove finiscano gli uni ed inizino le altre.
Le tre croci, il Cristo, i Ladroni contorti dal dolore.
E poi le donne in lacrime, i Legionari, il popolo… Una folla colratissima, indaffarata, mobile, se ha senso usare questo aggettivo per delle statue.

Crocifissione (il ladrone)

Peccato solo non si possa realmente entrare nella cappella e si sia obbligati a guardare questo capolavoro attraverso un vetro blindato spesso quattro dita…

Naturalmente, guardando le cose da un punto di vista devozionale, il culmine del percorso dovrebbe essere in realtà la resurrezione di Gesù, rappresentata dalla fontana al centro della piazza, davanti alla basilica.

Chi mi conosce sa che io non amo l’architettura barocca.

Dove “non amo” è decisamente un eufemismo per ingentilire l’immagine di ruspe, di palle demolitrici e di tritolo che l’idea di barocco fa affiorare nella mia mente

E infatti è per questo che della basilica dedicata alla Vergine non ho parlato e non ho nemmeno intenzione di parlare più di tanto.
Chi tra voi ama il genere, comunque, potrà finalmente trovare qui gli ori, i marmi, gli stucchi, i trompe l’oil e tutto quell’armamentario estetico che normalmente si associa al concetto di Barocco.

La basilica

Io, personalmente, vi aspetto giù al parcheggio.

Emilia Romagna, Italia, Lombardia

TERRAE SANCTI COLUMBANI (PT. 1)

Colombano aveva un problema.
Il Trebbia rendeva fertili le terre che aveva avuto in dono dalla regina Teodolinda, ma era troppo impetuoso perché lui potesse guadarlo.
Come fare, quindi, a portare il Vangelo ai Celti pagani che vivevano ad est del fiume?

***Nel frattempo i Celti – va detto per amor di verità – di problemi non ne avevano.
Vivevano serenamente come avevano sempre fatto e dal monaco irlandese avrebbero preferito ricevere la ricetta della birra piuttosto che il Vangelo, se solo qualcuno si fosse premurato di chiedere la loro opinione.***

“Un ponte! Ci vorrebbe un ponte! – pensava Colombano “ma io sono un vecchio, e i miei monaci sono pochi e inesperti.”
“Ma basta chiedere, Colombano! – disse alle sue spalle una voce profonda con una leggera inflessione Emiliana – ti serve un ponte? Ci penso io!”

Era la voce di un uomo alto, chiaro di pelle e scuro di occhi; un mantello nero con un ampio cappuccio incorniciava il bel volto dai tratti affilati e dalla barba a punta.
Colombano lo conosceva bene.
I due erano nemici da sempre, e Colombano non rispose, si limitò a guardarlo con aria scettica.

“I ponti sono la mia specialità, lo sai. Servizio rapido ed economico per i sant’uomini itineranti come te! Torna qui domani e il tuo ponte sarà pronto!”
“E tu cosa ci guadagni? Ti conosco bene, Diavolo, non fai niente per niente tu!”
“Senti chi parla… Quello che si è fatto regalare una montagna intera in cambio di un parere teologico…
Io ti faccio il ponte e tu mi regali la prima anima mortale che lo attraversa. E prima di rifiutare pensa a quante anime pagane porterai al tuo capo grazie al mio bel ponticello!”

Fu abbastanza per convincere Colombano.
Si trattava di fare un patto col Diavolo, d’accordo, ma quello che conta è il risultato, no? Tutti quei pagani da convertire in cambio di un’unica anima mortale.
E poi Colombano era furbo. Molto furbo.

Bobbio dal ponte

Era l’imbrunire quando il Diavolo iniziò i lavori.
Narra la leggenda che per costruire il lungo ponte così in fretta, chiamò in aiuto dei demoni suoi amici.
Questi tenevano su il ponte mentre il diavolo costruiva le colonne. Peccato solo fossero tutti di altezze diverse.

La mattina dopo Colombano si trovò davanti un ponte tutto sghembo, fatto di tanti archetti di dimensioni completamente diverse tra loro.
Non era gran che, in effetti, ma pur sempre meglio che cercare di guadare le acque gelate del Trebbia.

Per giunta nella notte aveva trovato il modo di non pagare il suo debito.
Colombano aveva un cane. Vecchio e malato, quasi moribondo.
“Se faccio passare lui per primo – si disse Colombano – il Diavolo dovrà prendersi la sua anima di cane* e io avrò il mio ponte senza sacrificare un uomo.”
E così fu.

“Mai cercare di fottere un Irlandese!”

Altorilievo di San Colombano sul ponte gobbo

Si dice che il povero Diavolo ci rimase così male da cercare di abbattere il suo ponte con un calcio. Col risultato di renderlo ancor più storto.

Il ponte di Bobbio sembra davvero preso a calci da demonio. Secoli di piene, crolli e rimaneggiamenti hanno determinato la sua forma bizzarra dovuta ad undici archi di altezze diverse.

Ponte Gobbo

Per buona parte della giornata sarò perseguitato da una luce piatta e da un cielo lattiginoso, arcinemico della buona fotografia, ma qui sul ponte gobbo, mentre guardo verso il paese e verso le montagne alle sue spalle, dei nuvoloni si addensano in controsole coronando il Monte Pietra di Corvo, il Penice e la Cima delle Scalette con un bell’alone drammatico.
Pensa che culo! La passeggiatina digestiva dei Bobbiesi acquista di colpo un allure epica!

Dritto davanti a me, salendo per le viette medievali del rione Castellaro, la splendida abbazia di San Colombano e il Castello Malaspina.

Dal cortile del castello, visitabile gratuitamente, si dominano il paese,il ponte e la media Val Trebbia.
Volendo con soli due euro si può visitare l’interno, ma davvero non ne vale la pena.

Bobbio

La custode mi apre i primi due piani del mastio (il resto non è visitabile), ma non c’è nulla che somigli a un percorso espositivo. La signora vaga per le stanze chiuse accendendomi le luci e nel salone principale mi apre perfino (!) gli scuri del finestrone affacciato sulla valle. Ma non una parola sul castello, la sua storia, un’idea di quello che sto vedendo.
Chiedo fino a quando è stato abitato il castello (primi ‘900) e scambiamo quattro parole in croce sui mobili che arredano le sale.
“Eh, tutto qui – mi dice con aria tra lo scocciato e il rassegnato – il resto non è visitabile.”
In totale sono stato dentro dieci minuti. Tra letti dai materassi nudi, stanze che vorrebbero evocare una vita di cui nulla ci viene detto e ritratti di ignoti. Basterebbe poco per renderla una visita piacevole, invece ne esco con una sensazione di sconforto che solo i maccheroni alla bobbiese conditi con lo stracotto sapranno curare.

Mastio

Ormai è il momento di mettersi in di nuovo in marcia. Ricordavo migliori le condizioni della provinciale (la 461) che si arrampica sul versante del Penice. Anche qui, come sul versante lombardo, in alcuni tratti sembra che il terreno sia scivolato verso il basso sotto la strada, creando avvallamenti e crepe.
Niente di drammatico, sia chiaro.
Poco prima del passo si stacca la provinciale 412R della Val Tidone. Il bivio, sulla destra, è appena all’uscita di una curva abbastanza veloce e torna indietro praticamente di 180 gradi. Se siete come me state pronti a smadonnare per essere arrivati lunghi, a fare inversione appena possibile e tornare indietro.
Pozzallo (Pozzallo? Ma non era in Sicilia?), Casa Matti e Romagnese sfilano veloci ai bordi di una strada bella ma infida.
Sarà che davvero è poco battuta, sarà che stanotte ha diluviato, ma l’asfalto è pieno di sporcizia e ghiaino scivoloso e al momento di inserisi in curva tocca sempre affidarsi un po’ alla sorte e a Santa Bridgestonia.
Dopo un po’ di su e giù ci stacchiamo dalla strada principale verso sinistra (SP 207) e saliamo decisamente. In poche curve entriamo nel paese di Zavattarello.
Un borgo medievale dominato dall’alto da una rocca arcigna che è la nostra meta.

Il castello di Zavattarello

Parcheggio Aiko davanti al municipio e mi inoltro su da dentro, come qui chiamano il quartiere medievale. La strada per il castello sale ripida girando attorno all’aspra collina. Arrivo in cima sbuffando come una locomotiva, ma ne vale la pena.
Il castello è incantevole e meravigliosamente restaurato.

Ricordate quello che ho detto poco fa del castello di Bobbio?
Ecco, qui è tutto il contrario. Abitato fino al 1942, il castello fu dato alle fiamme dai nazisti e poi saccheggiato e lasciato in uno stato di abbandono fino aalla fine degli anni ‘70, quando fu donato al Comune dai Conti Dal Verme.

Il cortile del castello di Zavattarello

Ristrutturato negli anni ‘90 è ora completamente visitabile.
Qui di originale c’è rimasto poco.
Ciò che l’incendio non ha distrutto è stato in gran parte trafugato. Pare che addirittura i pavimenti in cotto siano stati portati via (e immagino che qualche ricca casa della zona abbia oggi un bel salone in cotto medievale).

Zavattarello dall'alto

Eppure, vuoi per il contributo dei Dal Verme che hanno anche donato suppellettili e quadri che avevano salvato dalla guerra, vuoi per la bravura degli allestitori, l’immagine complessiva del castello è ricca. Gli ambienti sono ricostruiti al meglio e, soprattutto, la guida è preparata e molto, molto coinvolgente.

Panorama e merli

I quaranta minuti che ci vogliono dalle segrete sino alla terrazza sul tetto del castello passano in un lampo, attraversando la sala della musica col suo fantasma, le cucine, il salone delle feste e le sale del piccolo ma ricco museo d’arte contemporanea.

*= In quegli anni la Chiesa non aveva ancora le idee chiarissime su chi avesse un’anima. I cani sì, almeno secondo Colombano, in compenso ancora si discuteva riguardo le donne

L’itinerario prosegue qui.

Abbazie del Sud-Milano, Italia, Lombardia

LE ABBAZIE DEL SUD-MILANO (PARTE SECONDA)

Circa 75 kilometri (più deviazioni) da Milano Centro o dall’Abbazia di Viboldone.

L’ABBAZIA DI MIRASOLE

C’è un modo molto facile di arrivare a Mirasole partendo da Viboldone.
Si prende la tangenziale, si esce ad Opera e si è subito lì.

E poi c’è il modo da stronzi. Che è infilarsi in un dedalo di stradine consortili bordate di fossi che – tra un senso unico e un’inspiegabile chiusura al traffico di un tratto di dodici metri – portano verso sud-ovest sino a incontrare la (ex) statale della Valtidone a Locate Triulzi per poi tornare verso Nord e raggiungere Opera, dove poi troverete le indicazioni per l’abbazia.

E io quale ho scelto?

Bravi, proprio quello! Ma ormai lo sapete, per avere qualcosa da raccontarvi non mi fermo davanti a nulla!

Il cielo su Opera

Come?
Avevate già fatto la prima metà del giro la scorsa volta e siete tornati a casa aspettando il seguito?
Ah, giusto… Colpa mia, scusate…

Per arrivare direttamente a Mirasole dal centro di Milano dovete prendere Via Ripamonti e raggiungere Opera. Appena superato il cavalcavia della Tangenziale, seguite lo svincolo per Opera Centro e Rozzano.
Da lì l’Abbazia è (relativamente) ben indicata.

Se solo fossi credente, arrivato all’abbazia correrei ad accendere un cero per grazia ricevuta per il fatto di non essermi schiantato al suolo proprio davanti all’entrata del complesso.

Invece mi limito a dedicare un pensiero di ringraziamento agli ingegneri della Kawasaki che hanno dotato Aiko di un avantreno stabilissimo, in grado di resistere a un mio improvviso sussulto, e a complimentarmi con me stesso per avere imparato a dominare almeno un po’ le reazioni inconsulte.

Dovete sapere che ho un rapporto più che conflittuale con le vespe.

Loro mi odiano e io le temo. Sono stato punto in ogni modo possibile, compresa una vespa sospinta dal vento e una in letargo, inspiegabilmente caduta da un vespaio, che ho calpestato scalzo.
Roba che nemmeno Fantozzi…

Oggi, arrivando qui, ho aggiunto un trofeo al mio palmares: ho travolto una vespa, risucchiandola all’interno della giacca – aperta sul petto –  e la stronza mi ha punto al costato.

0005 - Arco

***Nota Storica: L’abbazia risale al XIII secolo e fu fondata dall’ordine degli Umiliati.
In ossequio alla regola dell’ordine la struttura è produttiva, agricola, e solo poi un luogo di culto. Con la soppressione degli Umiliati, il complesso agricolo passò prima al Collegio Elvetico e poi al Policlinico. Restaurata dagli anni ‘80, nel 2013, dopo cinquecento anni, dei frati sono rientrati nell’abbazia ma – nonostante un contratto di 99 anni – probabilmente ne usciranno alla fine del 2016 poichè il loro numero è diminuito troppo e non sono in grado di occuparsi dello stabile.***

Da lontano Mirasole sembra una normale cascina a corte chiusa.
Un edificio basso, quadrangolare, con il muro esterno intonacato di bianco e il tetto di coppi.
Una specie di torrione di mattoni rossi segna l’ingresso principale all’aia e un basso campanile, sempre nel classico mattone pieno lombardo, segnala la presenza di una chiesa che, come accade spesso nelle frazioni rurali interamente racchiuse nella cascina, è integrata nel recinto dell’insediamento e si affaccia sull’aia come tutti gli altri edifici.

0004 - Esterno

Non ha davvero niente, insomma, di particolare.
Ed è proprio questo ad essere particolare!

Motografo, hai bevuto? Hai preso le tue goccine? Il veleno della vespa di ha dato alla testa? Ti rendi conto di essere diventato bipolare?

No, calma, lasciatemi…. Non voglio andare a riposarmi in una stanzetta imbottita, fatemi spiegare!

Gli umiliati erano un ordine pauperistico composto di monaci, laici e di intere famiglie che si aggregavano per vivere in conformità a una regola basata sostanzialmente sul lavoro come dovere morale. Il lavoro agricolo costituiva, quindi, la principale attività degli abitanti di una comunità, prevalente rispetto alla preghiera e alla vita contemplativa.

0002 - Panorama dell'aia

Mirasole, quindi, dimostra tutta la sua specificità di abbazia degli Umiliati proprio nel suo essere assolutamente identica alle altre cascine della bassa, in ossequio al principio di assoluta centralità del lavoro.

L’elemento ornamentale è quasi del tutto assente dalla struttura, eppure quel poco che c’è ha un’importanza simbolica notevole: il simbolo stesso della comunità – un sole raggiante inscritto in una falce di luna – è stato prima simbolo del Comune di Opera e poi della Provincia di Milano e della nuova Città Metropolitana.

0007 - Interni

0011 - Chiostro

DEVIAZIONE: LA CERTOSA DI PAVIA

Dal punto di vista formale la Certosa non rientrerebbe nel novero delle abbazie del territorio meridionale di Milano, visto che è in provincia di Pavia, ma già che sei a Opera basta fare una ventina di kilometri verso sud per arrivarci.
Vuoi lasciar perdere?

***Nota storica: fondata per volere del Duca Gian Galeazzo Visconti nel 1396, il complesso della Certosa è un capolavoro architettonico che mostra la transizione dallo stile gotico lombardo all’architettura rinascimentale vera e propria, specialmente nella bella facciata bianca. tanto rigorosa quanto riccamente decorata, che contrasta con il classico mattone rosso che imperversa nel resto del complesso.

Il monastero Certosino, grazie alla munificenza di Gian Galeazzo e dei suoi eredi, divenne proprietario di gran parte delle terre coltivabili tra Milano e Pavia. L’opera di bonifica e irregimentazione delle acque coordinata dai monaci della Certosa rese ben presto il monastero una potenza economica.

Soppressa dall’imperatore l’istituzione certosina (1782), il complesso fu brevemente abitato dai cistercensi, a loro volta cacciati dalla Repubblica Cisalpina.

Tra soppressioni e riaperture, l’abbazia viene abitata da a turno da Carmelitani e Certosini, che vi rimangono sino al 1946, quando decidono di abbandonare il complesso in seguito allo scandalo dei ritrovamenti dei resti del corpo di  Mussolini.

Oggi ad animare il sito sono i monaci cistercensi.***

Quella di Pavia è la Certosa per antonomasia, in Italia.
Ha dato il nome al paese in cui si trova e persino al formaggio (la sede storica della Galbani è qui a un tiro di sputo).

In tutta la struttura le fotografie sono vietate, sono giusto riuscito a rubare uno scatto della splendida facciata rinascimentale che trovate in copertina.

Quindi fidatevi di me: in un pomeriggio soleggiato di primavera sono poche le mete così belle a così poca distanza dal centro di Milano.

La struttura è estremamente affascinante, anche perchè è ancora abitata da un discreto numero di frati, tanto che non è difficile incontrarne qualcuno un po’ più loquace che abbia voglia di raccontarvi qualcosa della vita monastica.

Oddio, facendo un catalogo delle mie esperienze posso assicurarvi che essere accompagnati da fanciulle prosperose aiuta ad entrare in connessione emotiva con i monaci che passeggiano nel chiostro e a farseli amici.

Venendo da solo non mi sono mai visto indirizzare nemmeno un saluto…

È triste ma va detto: qui, come a Chiaravalle, il negozio dei monaci è davvero deludente.
Uno si addentra tra gli scaffali certo di trovare l’amaro miracoloso, la marmellata di frutti antichi di cui mai aveva sentito parlare o la conserva di ortaggi più buona del mondo e, invece, trova pochi prodotti, costosi e per lo più provenienti da fuori.
Spesso roba che si trova comodamente – e a un paio di euro meno – in qualche negozio in città.


L’ABBAZIA DI MORIMONDO

Sono piccole strade tra i campi quelle che si percorrono per arrivare qui partendo da Certosa di Pavia. Si risale lungo la statale dei Giovi fino a Giovenzano, quando la si lascia per procedere verso ovest attraverso Vellezzo Bellini, Rera, Torradello e Trivolzio fino a Bereguardo.

Abbazia di Morimondo -  Le terre dell'abbazia

Qui si riprende una strada appena più grande per risalire verso Nord-Ovest in direzione Abbiategrasso.
Se invece siete partiti direttamente da Mirasole, ignorando i miei consigli, prendete la tangenziale e poi la A7 per Genova. Uscite a Binasco e puntate subito su Santa Corinna di Noviglio.
Gli appassionati di design qui troveranno anche il museo Kartell.

Oltre Motta Visconti si incontra Besate.
Se è una giornata calda potreste approfittarne per fare un centinaio di metri su una facile carrabile di ciottoli ed andare in località Zerbo a prendervi un caffè alla casettina degli Amici del Ticino, a prendere il sole e farvi un bagno.

Per me questa è la spiaggia di casa, tutti i weekend di primavera capito qui, ma attenzione!

Il Ticino è un fiume subdolo. Ogni anno si porta via almeno un paio di bagnanti. Se decidete di tuffarvi state estremamente attenti, non allontanatevi dalla riva e restate dove si tocca!

In alternativa potreste seguire uno dei sentieri che partono dalla spiaggetta e si inoltrano nel bosco lungo gli argini. Quello verso monte (alla vostra destra) raggiunge un’altra insenatura dalle sponde fangose dove gli anziani della zona ormeggiano le barchette da pesca e dove spesso si avvistano aironi e gallinelle. Invece seguendo la corrente (verso sinistra) presto si piega nell’interno, inoltrandosi in un bosco a tratti quasi impenetrabile. Dopo qualche centinaio di metri si sbuca in una radura – forse un pascolo – dove ho spesso incontrato delle grosse lepri selvatiche.

Tornate indietro costeggiando il bosco e sbucherete alle spalle del baretto dove avete posteggiato.

Vi siete asciugati? Perfetto, rimettetevi in moto seguendo sempre per Abbiategrasso.

Il primo abitato che incontrate è Fallavecchia di Morimondo.

Val la pena di farci una sosta (oltre che per la buseca della trattoria Lupi) per vedere come era fatta una grangia dell’abbazia.

A parte l’isolato di case esterno, costruito pochi anni fa, la cascina ha mantenuto le sue forme storiche, chiusa su tre lati e aperta sui campi e il fiume verso ovest.

Un paio di volte l’anno la cascina prende vita. Nell’aia il liscio più tradizionale liscio e l’immancabile salamella si alternano con spettacoli teatrali ed installazioni artistiche realizzate con i materiali del fiume e del bosco in un insieme armonico, grazie all’organizzazione del Teatro Pane e Mate.

E l’abbazia? E Morimondo?

Morimondo è qui, dietro l’angolo.

Abbazia di Morimondo -  Arrivando all'abbazia

Proseguendo ancora verso Abbiategrasso, dopo un saliscendi – l’unico cambio di pendenza di tutto questo giro – superate Basiano, un’altra grangia dell’abbazia, e in poco più di tre kilometri ci arriverete.

Abbiate cura di parcheggiare negli spazi segnati, l’abbazia è una meta turistica molto frequentata e le multe al turista indisciplinato rappresentano la prima fonte di entrata del comune. Lo splendido stato delle case, delle strade e del complesso monastico stesso vi fanno capire quantro ingenti siano, queste entrate.

Abbazia di Morimondo -  Il grande sagrato

***Nota storica: i monaci cistercensi che nel 1134 hanno fondato l’abbazia provenivano dall’abbazia francese di Morimond, nell’alta Marna. Dopo un paio d’anni di lavori monaci occupano i primi edifici mentre proseguono la costruzione dell’abbazia che culminerà con l’edificazione – tra il 1182 e il 1296 – della grande chiesa.

Abbazia di Morimondo -  Facciata

Questo ritardo nella costruzione, insieme alla lunghissima durata dei lavori, fa sì che la chiesa della prima abbazia cistercense in Lombardia sia anche una delle più “moderne”in cui gli stilemi gotici si mischiano con le classiche forme romaniche.
Soppressa in periodo napoleonico (e quando mai) sarà rilanciata prima dal solito Ildefonso Schuster e poi da Carlo Maria Martini.***

È inutile che vi racconti cosa vedrete. Io non sono Alberto Angela e le mie parole possono aggiungere ben poco alle foto. Però mi sento di darvi un consiglio: dopo aver visitato gli interni rigorosi, seguite la strada che scende verso i campi. Non tanto e non solo per godervi la fertile pianura lombarda al suo meglio, quanto per osservare il lato “monastico” dell’abbazia.

Costruita sul culmine di una piccola collina, la struttura sfrutta il pendio per posizionare tre piani di “servizi” (refettori, celle, studi) al di sotto del piano del chiostro.

Il complesso visto da sud appare quindi imponente, quasi fortificato.

Abbazia di Morimondo -  La parte monastica

Il vostro giro potrebbe finire qui.
Potreste tornare verso Milano lungo la vecchia Vigevanese, seguendo il corso del Naviglio Grande o potreste chiudere in bellezza e organizzare una cena alla Cascina Selva di Ozzero (Ma pensi solo a mangiare? Sì! E allora?!?).

Ma se invece vi è avanzato ancora un po’ di tempo, potreste aggiungere un’ultima deviazione:

DEVIAZIONE: LA CERTOSA DI GAREGNANO

Tornando a Milano, infatti, potete allungare leggermente il tragitto per fermarvi in un luogo ignoto ai più nella periferia nord-ovest della città.

Via Garegnano è l’archetipo della periferia povera. Case vecchie ma non antiche, con uno stato di manutenzione precario, schiacciate tra un enorme asse di penetrazione (viale Certosa) e i cavalcavia dello svincolo autostradale, probabilmente il più grande e trafficato della Regione.

Eppure è proprio qui che si nasconde un piccolo capolavoro che si contende con la chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore il titolo di Cappella Sistina di Milano.

Panorama

***Nota storica: fu il Signore ed Arcivescovo di Milano Giovanni Visconti, nel 1349, che volle stabilire una comunità di monaci certosini nel territorio del borgo di Garegnano, allora a più di quattro kilometri dalle mura, ma quella che vediamo oggi non è la stessa struttura. Completamente ristrutturata alla metà del ‘500, e poi ancora rimaneggiata nel ‘700, la chiesa si presenta in forme miste rinascimentali e barocche, ma il suo vero punto di interesse è l’incredibile ciclo di affreschi che copre ogni possibile spazio dell’unica navata interna, dipinto in due fasi da Simone Peterzano (nel 1578) e poi da Daniele Crespi (nel 1629).
Soppressa in periodo napoleonico e poi utilizzata come caserma dagli austriaci, la Certosa oggi ha perso il chiostro grande. Al suo posto, stavolta, non i binari del treno come a Chiaravalle, bensì il mostruoso svincolo dell’autostrada che lambisce l’abside della chiesa.***

Abside

A Milano sono pochissimi quelli che la conoscono. La maggior parte di noi si chiede come mai un vialone che sembra una specie di autostrada porti il nome di Certosa, visto e considerato che non porta certo alla Certosa di Pavia.

(No, in realtà non se lo chiede nessuno. Ci limitiamo a prenderne atto e disinteressarcene).

offitto

E invece il motivo c’è: mutilata (e quando mai) del suo grande chiostro, assediata da brutta edilizia e svincoli micidiali, la Certosa di Garegnano è qui da più di seicento anni, da prima che venisse fondata quella di Pavia.

Francesco Petrarca, legato all’ordine certosino grazie al fratello Gherardo, fu spesso ospite dell’abbazia, che è la più antica delle Certose lombarde, seppure dell’originaria struttura trecentesca che lo ospitò oggi non rimanga niente.

Affreschi

Italia, Lombardia, Speciale Navigli di Milano

IL VILLAGGIO OPERAIO DI CRESPI D’ADDA E LA MARTESANA

Capitalismo paternalistico.

Quell’idea per cui l’imprenditore è padrone dell’azienda ma è anche padre degli operai.

Chi lo considera positivamente sottolinea la forte connotazione di responsabilità sociale. Il padrone ha il dovere di offrire ai dipendenti, oltre al lavoro, servizi vari che vanno dall’assistenza materiale allo svago, all’educazione.
I critici, invece, si concentrano sul rovescio della medaglia. Il lavoratore diventa dipendente in senso stretto. Il padrone, insomma, non è più solo quello che gli fornisce un compenso per il lavoro, diventa una sorta di re, se non di divitità, dalla cui benevolenza dipende ogni aspetto della vita del lavoratore. E prova tu a entrare in contrapposizione col padrone se dalla sua benevolenza dipendono le medicine per i tuoi figli.

Con diverse sfumature, in Italia il paternalismo è stato molto diffuso per buona parte del ‘900.

Basti pensare alle colonie estive, alle borse di studio, alle coperture sanitarie per la famiglia, alle attività sportive ed ai dopolavoro.

Raramente, però, si è avuta, in Italia, una situazione analoga a quella di Crespi d’Adda.

Cristoforo Benigno Crespi, bustocco, compra nel 1878 il terreno e le concessioni per impiantare un cotonificio sulla riva bergamasca dell’Adda di fronte a Trezzo.
Perchè mai un bustocco non abbia scelto le rive del Ticino non me lo spiego, se non immaginando che abbia – comprensibilmente – cercato in ogni modo di allontanarsi da Busto Arsizio il più possibile.

Tempo una ventina d’anni e al cotonificio ha aggiunto un vero e proprio villaggio utopico (o distopico, fate voi).

Villette bifamiliari per gli operai.

Riscaldamento centralizzato e luce elettrica nelle strade quando ancora nei paesi della zona di andava a sterco di mucca pressato nella stufa e candele di sego.
Scuola e asilo.

Piscina, bagni pubblici e lavatoi.

Un teatro, la chiesa e il cimitero.

E un castelletto neomedievale che domina la fabbrica, segno del potere e della magnanimità della famiglia.

Villa Crespi dalle sponde dell'Adda

Per qualche anno ancora, a cavallo del secolo, proseguono le aggiunte (le ville per i dirigenti, la nuova centrale elettrica con il suo canale) poi inizia ad esaurirsi la spinta propulsiva di Cristoforo e del figlio Silvio che gli è nel frattempo subentrato.

Villa per i dirigenti

Ciononostante, Crespi d’Adda non cambia poi molto.

La fabbrica passa di mano varie volte e i nuovi padroni si svincolano dal villaggio, che inizia un progressivo declino che durerà per tutta la seconda metà del secolo e i cui segni si vedono ancora oggi.
Non sorgono però i centri commerciali e i quartieri di villette brianza style e, quando nel 1995 il villaggio diventa patrimonio UNESCO, le mutazioni più rilevanti sono quelle sociali.

Villino tipo

Arrivo a Crespi – oggi frazione di Capriate – direttamente dall’autostrada.

Poco più di una trentina di kilometri, ma è un agghiacciante rettilineone spianagomme che mi fa rimpiangere di non essere un Autografo, che almeno avrei l’aria condizionata.

Il cancello e l'orologio

Appena entrato in paese distinguo la sagoma della torre del castello dei Crespi e le ciminiere in mattoni della fabbrica.

La via principale del paese, via Donizetti, corre parallela al fiume, da Nord a Sud.
A destra il Castello dei Crespi domina il paese e, subito al suo fianco, l’enorme fabbrica. A sinistra la chiesa, le case, i servizi. In fondo al paese il cimitero, con la sua sagoma da zigurrat, sproporzionata, a chiudere l’orizzonte come una quinta teatrale.

Oggi non ci sono visite guidate in programma, quindi la fabbrica posso vederla solo da fuori.

Cancellata e ciminiera

È un bellissimo complesso industriale di fine ‘800, con i capannoni a shed ingentiliti da rosoni  neogotici e profili in cotto e con l’altissima ciminiera che si staglia sull’orizzonte.

L'entrata della fabbrica

Fino al 2003 è rimasta attiva, pur attraversando ciclici momenti di crisi.

Anche la villa dei Crespi – un vero e proprio castello progettato da Ernesto Pirovano – lo vedo da fuori. La torre che spunta dall’alta recinzione a un milanese come me ricorda vagamente Palazzo Cova di via Carducci, di poco successivo.

Villa Crespi tra le fronde

La misura e la sobrietà della Lombardia Asburgica, proprio…

Ma le case degli operai come sono? In concreto l’utopica visione dei Crespi come si realizza?

Si tratta, sostanzialmente, di villini. Per lo più bifamiliari.

Villini e il Gazometro della centrale termica

Ricordano da lontano le case dei ferrovieri di Milano, ma qui – complice l’ampio spazio disponibile – le casette sono staccate una dall’altra. Ogni villino ha il suo pezzetto di giardino/orto attorno e costituisce un modulo del reticolo urbano.

La recinzione alta un metro, in legno e metallo, è un vero marchio di fabbrica.
Naturalmente oggi sono tutte dei rifacimenti, ma in origine erano fatte riciclando i reticoli metallici (le règie) che tenevano insieme le balle di cotone.

Quando il paese e la fabbrica erano una cosa sola, i villini erano dati in affitto alle famiglie dei dipendenti con un canone preferenziale detratto direttamente dalla busta paga. Ancora oggi, a quasi un secolo dalla separazione tra azienda e città, nelle casette abitano per lo più i discendenti degli operai del cotonificio.

Lavatoi

Il terreno è ancora fangoso, impregnato della pioggia che ieri ha inondato queste zone.

Si scivola e devo stare molto attento mentre scendo questa piccola scarpata. Sotto di me c’è solo una piccola piattaforma di cemento, poco più di mezzo metro, e poi un precipizio di almeno 20 metri. Sotto, il fiume che mugghia davanti alla diga.

Ho percorso questo ponte – l’attraversamento dell’Adda sulla Milano-Venezia – migliaia di volte, ma ancora pochi minuti fa non immaginavo che esistesse un modo per vederlo da sotto.

Sotto il ponte

Il piccolo ingegnere che vive sepolto – e imbavagliato, e incatenato – in me per un attimo ha la meglio e, anzichè guardare il panorama, mi ipnotizzo ad osservare gli archi e i piedritti della struttura.

Stupendo, grandioso! Ma sono salito sino a qui soprattutto per vedere dall’alto l’Incile del Naviglio e la diga Crespi.

Incile della Martesana da Sotto il Ponte

Infatti la diga, che si raggiunge con una stradina che scende nel bosco alle spalle del cotonificio, segna l’inizio del Naviglio Piccolo, noto ai più come Martesana.

L'inizio della ciclabile

Naviglio Piccolo perchè, per lunghezza e portata, perde il confronto con il più antico Naviglio che dal Lago Maggiore arriva a Milano: il Grande, appunto.

Alla fine del ‘400, grazie ai progettisti che lavoravano per Ludovico il Moro, il canale raggiungeva la fossa interna dei Navigli di Milano creando un sistema che permetteva a uomini e merci di spostarsi dalle rive del Ticino sino all’Adda.

Un sistema migliorato dagli Asburgo e da Napoleone con l’apertura del Pavese. Chiunque abbia governato Milano, insomma, ha dato il suo contributo a questo capolavoro dell’ingegneria idraulica.

Panorama incile della Martesana e Diga Crespi

Poi è arrivato Lui.

Anzi, LVI.

E i suoi emissari hanno ben pensato di riempire la fossa interna di terra per agevolare il traffico automobilistico.

‘Sta cazzata non è passata alla storia solo perchè prima, dopo e durante ne ha fatte talmente tante più gravi… Però, ecco, spero che all’inferno Caronte il barcaiolo gli faccia pagare un po’ anche questa…

Diga Crespi

Dei Navigli di Milano, la Martesana è quello che conosco di meno. E forse è quello che presenta meno attrattive dal punto di vista fotografico. Non so bene cosa andare a cercare (e alcuni punti di interesse scoprirò nei giorni seguenti di averli mancati in pieno) e ho francamente paura di avere pochissimo da raccontarvi.

Ma già mentre cammino lungo i primi metri del canale, appena a valle dell’incile, ecco che la fortuna mi sorride!

In mezzo tra una grigliata e un pic nic vedo una trave di legno affondata nel terreno.

Pieces 1

Comune è il principio e la fine nella circonferenza del cerchio
Una frase di Eraclito.

Pieces 2

È uno dei pezzi che compongono l’opera Pieces, che Benny Mangone ha realizzato per Ecoismi 2016.

Il percorso di Ecoismi non coinciderà al 100% con il mio, ma lo userò come guida nel mio ritorno verso la città.

A volte andrò a cercare le opere per avere un punto focale, qualcosa da mostrarvi nei miei scatti, in altri casi saranno loro a trovare me.

ATeMpo

È il caso di ATeMpo del duo iraniano MA2 che incontro a Cassano d’Adda sulla grande ansa con cui il Naviglio si stacca definitivamente dal fiume e si dirige verso Milano.

Tre piccole prue di barche. Tre vele di organza (oddio, credo che sia nylon, ma vabbè) coperte di anellini di rame che guardano a nord, come a voler risalire la corrente verso il lago.

ATeMpo sull'ansa di Groppello

Proseguo ancora qualche kilometro e a Inzago incontro una conca in condizioni perfette. Suppongo non venga più utilizzata da anni ma, per quel che ne posso capire io, potrebbe tranquillamente rientrare in funzione domani.

Conca di Inzago

Appesa al ponte pedonale che passa alto sopra il naviglio, una sfera di legno costituisce l’opera Photosyntesis delle italiane Calembour, sempre parte del percorso espositivo del festival.

Photosintesis

In pieno sole io, in tutta onestà, i colori che dovrebbero illuminare la sfera non li vedo, ma suppongo che di notte possa essere un’opera assai suggestiva. Mi permetto solo di consigliare di occultare un po’ meglio batterie e pannelli, in futuro. Da sotto non danno fastidio, ma attraversando il ponte si ha l’impressione di una cosa montata un po’ di fretta e quasi abusivamente.

Una nota a margine: le prime due opere che ho incontrato erano corredate da un piccolo cartello con le didascalie e con riferimenti alle opere successive.
Riferimenti non chiarissimi, devo dire, non certo facili da seguire per chi non si trovi in bicicletta sulla ciclabile dell’Alzaia, ma almeno dei riferimenti.

Qui non trovo nulla del genere, nè troverò altre tracce da seguire più avanti.

Gorgonzola, la chiesa

Gorgonzola le case sul naviglio

Il Naviglio prosegue il suo tragitto verso Milano attraversando comuni che per noi bambini di Milano Ovest esistono solo come entità leggendarie sul cartello della Metropolitana.

Gessate, Cassina de’ Pecchi (dove non trovo l’opera di Ecoismi 2016 ma, in compenso, mi imbatto in quella realizzata per l’edizione precedente), Gorgonzola, Cernusco…

Pausa a Cassina de'Pecchi

Il caldo è davvero torrido oggi. Io reggo meglio del solito, ma mi rendo conto che Aiko si sta surriscaldando. Finchè vado non è un problema, ma il continuo fermarmi per fotografare il corso del canale sta portando il motore a una temperatura preoccupante.

La Ciclabile

Dopo Cernusco il paesaggio si fa decisamente meno suggestivo e io ne approfitto per dichiarare chiusa l’impresa di oggi e tornare a casa a far riposare le stanche membra della mia fedele compagna.

Per seguire tutti gli itinerari del Motografo lungo i Navigli puoi partire dallo Speciale Navigli di Milano.

Italia, Lombardia

THE ROWING PIERS

Stavolta mi tocca aprire subito con delle scuse.
Normalmente faccio del mio meglio per raccontarvi degli itinerari replicabili.
Questo non lo è.

Non lo è perchè l’installazione “The floating piers” di Christo e Jeanne-Claude non è più visitabile e sarà rimossa nei prossimi mesi.
Mi dispiace. Ma questo non toglie che tutti voi dovreste visitare il Lago d’Iseo e Monte Isola.
E che magari dovreste anche provare il canottaggio, che vi vedo un po’ sedentari ultimamente.

Parto con un po’ di timore per questa avventura.
Non è la prima volta che remo sul Lago d’Iseo. Nel Giugno 2015, insieme ad altri amici della Canottieri Milano abbiamo raggiunto Lovere per prendere a noleggio una barca vichinga della Canottieri Sebino, raggiungere Monte Isola, fare un pic nic gigante e tornare indietro.

Quella che vedete qui sotto è l’ultima foto scattata con il cellulare che avevo allora, prima che un uragano lo distruggesse.

#Remomangioremo: questo è tutto cibo! #canottierimilano #CanottieriSebino

Un vero è proprio uragano. Non so come altro definire la tempesta di pioggia e vento che, allora, ci costrinse ad approdare in emergenza al porticciolo di Marone rifugiandoci nel portico di una casa del paese.
La barca ormai completamente piena d’acqua e tutto quello che avevamo con noi che galleggiava nello scafo quasi ingovernabile.

Oggi la stessa barca mi attende a Portirone – una decina di kilometri a sud di Lovere – ed il cielo non promette nulla di buono. Le nuvole coprono le montagne sulla sponda bresciana e il vento alza le onde.

Nubi

Sono le undici e un quarto del mattino. Sono in anticipo e mi fermo a Tavernola Bergamasca a fare colazione in un contesto sobrio e improntato alla misura.

Motografo – Mi fa un latte macchiato e una brioche
Martina la barista – Eh, brioche le ho finite.
Motografo – Frolle? Biscotti?
Avventore – Martina, mi fai un caffè?
Martina la barista – (Al Motografo) No, mi spiace… (Rivolgendosi all’avventore) Subito, grappa o sambuca?
Altro avventore – Martina, mi fai un spriss coll’Aperol? E anche un frizzantino e un rosso fresco, grazie!
Terzo avventore – Ciao Martina! Mi fai un caffè? Liscio, però, che devo guidare!

<<Eh, ma è giusto! – Mi ha detto Amica M. quando le ho raccontato la scena – A Bergamo siamo in tavola alle 12.00, quella è l’ora dell’aperitivo. Dovevi prendere uno spritz pure tu.>>
L’avrei pure fatto. È che con lo spritz non ti davano nemmeno le noccioline. Altro che colazione del campione…

Com’è come non è raggiungo il pontile pubblico di Portirone e mi ricongiungo con i compagni d’avventura.
La barca è già fuori con un primo gruppo di arditi. Appuntamento alle 12.00 per dare loro il cambio.

Portirone is not Greece

Alle 12.30 nessuno scafo in vista. Iniziamo a preoccuparci.

Pilone di ormeggio

È l’una abbondante quando la vichinga – la stessa scampata all’uragano – diventa riconoscibile all’orizzonte e poi, finalmente, approda davanti a noi.

La Vikinga in arrivo

Io non mi sono mai abituato ai remi di legno. Come ogni volta, anche stavolta al decimo colpo mi si è aperta completamente la mano esterna con delle stimmate tipo Padre Pio.
Percorsi i pochi kilometri che separano Pontirone da Sensole, sarò in preda alle più classiche allucinazioni a sfondo mistico.

Il cielo si sta rapidamente aprendo e quando arriviamo la passerella è appena stata aperta dopo una mattina di chiusura forzata a causa del moto ondoso. Il tratto da Sulzano a Monte Isola è aperto, mentre la diramazione che gira attorno all’isola San Pietro è ancora chiuso.

I moli deserti

Un fiume di gente

Sono arrivato convinto che l’enorme afflusso di persone rovinasse l’opera, che sarebbe stata molto, molto più suggestiva vuota. Ebbene, mi sbagliavo.
Evidentemente Christo (non quello delle allucinazioni fantozziane, l’artista) sa il fatto suo e ha progettato un’installazione di cui il pubblico è realmente parte.

I tratti chiusi al passaggio non sono altro che dei pontili galleggianti. Gialli, ma pontili galleggianti. Piazzati in un contesto suggestivo, se vuoi, ma dei pontili galleggianti.

Invece dove passano le persone l’effetto è straordinario.
È esteticamente incredibile l’effetto di centinaia di persone che camminano a pelo d’acqua tra le isole ed è ancora più incredibile il loro atteggiamento.

The floating piers

Hanno affrontato un viaggio della speranza tra ingorghi al casello, parcheggi pieni e navette.
Sono stati in coda per ore, senza la certezza di vedere finalmente aperti i pontili.
Eppure sembrano tutti rilassati, felici. Fanno foto, si siedono a godersi il panorama, ci incitano mentre passiamo inneggiando agli Abbagnale. Aspettano ancora – con pazienza – che apra l’ultimo tratto del pontile.

***L’opera fu concepita da Christo e Jeanne-Claude nel 1970. I due fecero diversi tentativi di realizzarla in varie parti del mondo, ma senza successo. Solo nel 2014 l’artista bulgaro (Jeanne-Claude è mancata nel 2009, ma Christo ha deciso di continuare a firmare le opere con entrambi i nomi [https://it.wikipedia.org/wiki/Christo_e_Jeanne-Claude]) ha avuto i permessi per realizzare l’opera sul Lago d’Iseo.
L’opera consiste in un percorso pedonale – completamente coperto di tessuto giallo zafferano – di circa cinque kilometri e mezzo, di cui tre su pontili galleggianti in polietilene ad alta densità posati per l’occasione.
Come per tutte le opere di Christo e Jeanne-Claude, tutti i materiali utilizzati saranno rimossi e riciclati o venduti per finanziare altri progetti.***

Non so se per la naturale diffidenza italiana verso il Contemporaneo in senso proprio, per un certo pudore nel parlare d’arte o per un gusto sensazionalistico da parte dei media, ma quasi tutte le informazioni che trovo su The Floating Piers si concentrano sull’aspetto ingegneristico.

L’opera è lunga cinque kilometri, larga sedici metri, sono serviti duecento e fischia mila cubetti di polietilene e cento e bruscolini mila metri quadri di stoffa.
Sono stati necessari tot centinaia di viaggi in barca per trascinare i pontili, questo numero di sommozzatori per posare gli ancoraggi, quest’altro numero di operai per stendere il tessuto…

Cheppalle!
Siete noiosi come quelli che cercano di convincermi che i Dream Theatre sono fighi perchè suonano in tempi dispari composti e prematurati!

Certo, Daverio ne ha parlato (male) in uno dei pochi suoi interventi con cui non mi sento di essere d’accordo fino in fondo, e anche Sgarbi in uno dei pochi suoi interventi sul Contemporaneo con cui mi sento di essere d’accordo.

Ma entrambi ne hanno parlato in prospettiva. Uno in una prospettiva storica (Christo è sempre uguale a se stesso, ha finito le idee nel ‘75), l’altro in una prospettiva di sistema culturale. Ma l’opera dove sta?

Isola di San Pietro

E allora ve ne parlerò io! Il Motografo, il noto critico d’arte che Giulio Carlo Argan gli pulisce le scale di casa….

Presa per quello che è l’opera non sembra nulla di che. È un pontile di plastica e nylon. Eppure è anche un fortissimo cambio di prospettiva.
È una riga di evidenziatore sul lago che obbliga il visitatore a rapportarsi con il lago stesso in un modo completamente diverso.
E, no, non è come essere in barca. Proprio provando le due esperienze una in fila all’altra lo si capisce.
Il fatto di muoversi liberamente, di potersi fermare, il gesto di camminare in sè rendono l’esperienza molto diversa. C’è un che di straniante ed entusiasmante al tempo stesso nel fatto di camminare in mezzo al lago.

The rowing piers

Intendiamoci, sono abbastanza convinto che il il 99% delle persone che hanno solcato le passerelle in questi quattordici giorni non si sia realmente interrogata sul significato artistico dell’opera nè sul suo valore estetico. Penso che ne abbia semplicemente apprezzato l’aspetto pop, quell’atmosfera da sagra di paese contro cui si scaglia Daverio.
Eppure sono anche convinto che in qualche modo proprio i più naïf tra i visitatori l’abbiano apprezzata più profondamente, seppure in modo inconscio.
Probabilmente non sanno perchè, ma sono stati colpiti profondamente. Per quello sono tutti sorridenti nonostante le ore di coda, il sole a picco e i trentacinque gradi.

E per quanto la cromoterapia mi puzzi di scemenza lontano un kilometro, immagino che anche il bellissimo giallo zafferano di questo tessuto influisca sull’umore gioioso della gente.

The floating piers

Quello che ancora non so, mentre penso queste cose, è che al rientro sulla terraferma avrò un altro – e forse più forte – straniamento.
Il pontile è galleggiante e, ovviamente, risente del mio peso e del moto ondoso. È facile abituarsi a camminare su un terreno mobile e cedevole, in continuo movimento a causa delle piccole onde che increspano il lago. Molto meno facile sarà, poi, riabituarsi a camminare sulla terraferma, così impietosamente dura ed immobile.
Un mal di mare al contrario a cui si è preparati scendendo da un traghetto, molto meno arrivando a piedi su un isola. Un sottile giramento di testa, non fastidioso ma nemmeno del tutto piacevole, che andrà ancora una volta a sottolineare il completo ribaltamento delle prospettive

L'angolo

Non mi sono ancora del tutto ripreso dal mal di terra che è già ora di rimettermi ai remi. Per lo meno non soffrirò il mal di mare che mi prende di solito durante le manovre!

Il cielo è ancora limpido all’attracco, quindi decido di mettermi in viaggio con l’idea di fermarmi lungo la strada, ma quando sono nei pressi di Dalmine una nuvola nera inizia ad addensarsi all’orizzonte.

Dice il poeta:

“Partirono all’alba per evitare gli ingorghi. Appena Fantozzi uscì, la sua nuvola da dietro le montagne gli piombò sopra la testa come un aereo da caccia. Era la famosa “nuvola da impiegati”. Ogni “impiegato” ne ha una. Sono nuvole maligne che stanno celate dietro le montagne anche 12 mesi, ma quando s’avvedono che il loro uomo sta per andare in ferie gli piombano sulla testa scaricandogli in nuca un quadrato di grandine in un metro per un metro e lo accompagnano implacabili.”
(Paolo Villaggio, Fantozzi va in ferie, in Fantozzi, Rizzoli, Milano 1971) [l]

Ecco. Sino ad oggi avevo sempre avuto una gran fortuna. Negli anni di pioggia in moto ne ho presa in quantità, ma mai in autostrada. E invece stavolta mi sono dovuto fermare sotto un cavalcavia per l’impossibilità di proseguire.
La tangenziale è allagata. Ci saranno dieci centimetri d’acqua in terra e non vedo nulla davanti a me.

C’è un sottile fascino nello starmene qui, in uno strapuntino di corsia d’emergenza, a guardare il diluvio tutto intorno a me e il traffico che si muove tutto attorno. .
Certo, se non fossi completamente fradicio (anche la migliore antipioggia cede dopo un po’, figuratevo il primoprezzodecathlon con cui vado in giro io) sarebbe meglio

Italia, Lombardia, Speciale Navigli di Milano

IL NAVIGLIO DI BEREGUARDO

Circa 90 km andata e ritorno da Milano.

***La maggior parte di questo tragitto si snoda su strade chiuse al traffico. Io ho rischiato una multa gigante per amor vostro e della conoscenza, ma vi consiglio di usare la rete delle consortili per incrociare il naviglio e di fare delle incursioni a piedi lungo il corso del canale.***

Il naviglio nei pressi della chiusa del fosso di FallavecchiaPer noi i navigli sono un elemento del paesaggio. Un’attrazione turistica. Una scenografia urbana. Oggi che, ipotizzando di rispettare il limite di velocità di 80 kilometri orari, un autotreno impiega 25 minuti dal ponte di Chiatte sul ticino a Milano. 32 Minuti da Pavia. Tre ore e mezza da Chioggia. Ma ora, seduto su questo argine a metà del percorso, mi sembra di vedere i barconi carichi di sale dell’adriatico, di riso della bassa, di zucche di Mantova e di vino dell’Oltrepo, di polli e galline e maiali di questa campagna, di merci e di uomini. E mi rendo conto di quanto fondamentali siano state queste vie d’acqua per la vita della città e dei suoi dintorni. Naviglio di Bereguardo - una conca tra Ozzero e Fallavecchia

E se fondamentale è stato il Naviglio Grande, con le sue chiatte cariche di blocchi di marmo ad usum fabircae, forse ancora più importante è stato il piccolo e dimenticato Naviglio di Bereguardo.
12 conche di navigazione per 18 kilometri di lunghezza. 24 metri abbondanti di dislivello da superare controcorrente, con barconi straripanti di merci.
Altro che il piccolo idillio bucolico di questo pomeriggio.

Ho scelto di fare questo giro una domenica pomeriggio di Novembre perchè questo è il momento in cui questi paesaggi sono più “veri”.
Per tre o quattro mesi l’anno qui è tutto verde di granturco, illuminato dal sole, sovrastato da un cielo terso che si riflette nelle acque dei canali.
Troppo facile. Come fa a non piacerti un posto così?
Ma in Novembre viene fuori la vera faccia di questa terra.
L’umidità che sale dai fossi e dalla terra trasforma il clima di un autunno più che mite in una morsa di gelo penetrante, l’aria immobile che si trasforma in nebbia, l’odore di legna e di castagne che si infila sotto il casco quando attraverso un paese o mi avvicino a una cascina.

Nei campi tra Trinchera e ContinaL'acqua dalla terra nei pressi della Trinchera

Appena lasciata Albairate, seguendo il corso del Naviglio, incontro il vecchio stabilimento della Mivar, che dovrebbe essere un luogo di pellegrinaggio religioso per la mia generazione.
Da qui sono usciti, negli anni 80 e 90, i gloriosi televisori dai cui schermi Uan ci arringava candeggiandoci il cervello ogni giorno alle 16.30.
Giù in cantina ho ancora un vecchio Mivar da diciassette pollici del 1986, perfettamente funzionante, che è stato il mio televisore fino al 2008.

Mivar - Abbiategrasso

Qui il canale è tutto meno che suggestivo. Gli argini di cemento attraversano una sorta di terra di nessuno in mezzo tra la cittadina, la campagna e i capannoni ma, pochi metri a valle dello stabilimento ormai dismesso, superata un’ampia ansa, lo scenario cambia e il naviglio prende la fisionomia che manterrà per tutto il suo corso. In corrispondenza della meglio conservata delle conche, subito prima di addentrarsi nella campagna, c’è la sede del consorzio Villoresi.

***Il transito sull’alzaia, ve l’ho detto, è vietato, quindi se passate di qui in moto cercate di farlo di domenica, o comunque in un orario in cui gli uffici sono chiusi. Non vorrete mica fargli sguinzagliare i cani, vero?***

Bene, se siete passati indenni da qui – e se eviterere di comportarvi come degli idioti infastidendo ciclisti e pescatori – dovreste poter percorrere tutta l’alzaia fino a Bereguardo senza problemi. Le prime conche che incontrerete sono indubbiamente le più suggestive grazie a una fortunata disposizione dei campi e dei filari di alberi che le circondano. Che siate in moto o in bici, il mio consiglio è quello di lasciare ogni tanto l’alzaia ed esplorare le stradine che portano alle cascine che costellano il territorio attorno al Naviglio. Certo, si tratta di fare qualche tratto di facile sterrato. Dove facile significa che io l’ho percorso agevolmente a 30/40 km/h con Aiko che è un pesante bicilindrico parallelo di stile inglese in assetto completamente stradale. Aiko scrambler tra Trinchera e Contina

Avete presente lo spot della Galbani? Quello della Giovanna che va sugli alberi in cerca di uccellini?
Ecco, l’hanno girato proprio qui, dove l’alzaia incrocia la strada che da Rosate porta a Fallavecchia.
A proposito di Fallavecchia: ecco due ottimi motivi per visitare la splendida, enorme cascina di origine medievale:

Naviglio di Bereguardo - Pietra Miliare

1 – Il Teatro Pane e Mate. Se avete dei bambini dovete portarceli. I mondi che Gianni, Monica e Salvatore sanno creare partendo praticamente dal nulla sono di quelle cose che si attaccano alla mente e al cuore dei bambini e li accompagnano per tutta la vita. Ogni anno il teatro organizza (di solito a giugno, ma guardate sul sito per sicurezza) anche la grande festa del paese, con salamelle, musica, balli e – naturalmente – il teatro per ragazzi e per adulti che invade gli spazi agricoli e li trasforma.

Naviglio di Bereguardo - Fallavecchia

2 – La trattoria della famiglia Lupi.
Se siete così fortunati da poter passare di qui il mercoledì all’ora di pranzo buttatevi dentro. Primo Busecca e secondo Cassouela. E l’autunno vi parrà la più dolce delle stagioni.

Ah, perchè lo sappiate… La gente qui è a farsi il culo nei campi dall’alba, quindi “ora di pranzo” significa mezzogiorno mezzogiorno e un quarto. Se arrivate dopo è facile che i piatti forti siano finiti…

Visto che abbiam lasciato il Naviglio, approfittiamone per tornare indietro di un paio di kilometri e fermarci a visitare l’abbazia di Morimondo: una superba costruzione medioevale che troneggia sulla campagna con quel aspetto etereo e al contempo estremamente concreto che il romanico lombardo in mattone cotto sa avere.

Potete decidere di fermarvi a fare il bagno al fiume a Besate (località Zerbo) o seguire le mie indicazioni e proseguire lungo il naviglio.

***Attenzione! Il Ticino sembra placido, ma come ogni fiume è traditore. Se decidete di farci il bagno non andate mai dove non toccate, non allontanatevi ed evitate di bagnarvi se siete i soli sulla sponda.
So che sembro una mamma ossessiva, ma ogni stagione c’è qualcuno che annega in Ticino e non mi va di perdere uno dei miei quattro lettori in un modo così stronzo!***

La storia dice che i Pavesi sono sempre stati ostili a qualsiasi via d’acqua che collegasse i loro territori a Milano.
E infatti il Naviglio di Bereguardo, per anni l’unico collegamento, non finisce davvero in Ticino.
O meglio, nel fiume ci arriva, ma gli ultimi due o tre kilometri non sono navigabili. Il grosso dell’acqua viene ceduto alle rogge irrigue e quello che arriva alla foce, poco a valle del ponte delle barche, è poco più di un ruscelletto.
Sono deficenti i Pavesi?
No. Tutt’altro.
Le merci in arrivo dal mare, via Po, , in questo modo, dovevano essere scaricate in territorio Pavese e trasferite a braccia sui barconi del Naviglio. Risultato?
Un bel dazio doganale!
Dling dling dling dling! Jackpot!

Greto del Ticino al Ponte di Chiatte di Bereguardo

Bereguardo è nota nel mondo – o per lo meno in quel triangolo di mondo che sta tra Sannazzaro de’Burgondi, Vermezzo e Travacò Siccomario – per il Ponte delle Chiatte che lo collega a Zerbolò (e, no… non ho inventato nemmeno uno di questi paesi).
Tappa obbligata di qualsiasi giro in zona, in autunno regala una vista impagabilmente malinconica, con la spiaggia di sassi sul Ticino avvolta nella nebbia e il silenzio interrotto da qualche rara macchina che passa sulle chiatte.
In estate, invece,  diventa un po’ la Cattolica della bassa, coi baretti e le trattorie presi d’assalto e famiglie di rumorosi personaggi sovrappeso che bivaccano sulle rive con ombrelloni, sdraio e quantità di cibo da far impallidire la Sora Lella!

Per seguire tutti gli itinerari del Motografo lungo i Navigli puoi partire dallo Speciale Navigli di Milano.

NOTA: la mappa riporta il percorso a piedi perchè, come vi ho detto, la strada dell’alzaia è chiusa al traffico automobilistico.

Italia, Lombardia, Speciale Navigli di Milano

IL CORSO DEL NAVIGLIO GRANDE

120 km circa A-R (partenza e arrivo a Milano)
***Avvertenza: l’itinerario in questo articolo è ricostruito sommando diversi giri fatti nell’arco di quattro anni. Alcune informazioni stradali ed immagini, quindi, potrebbero risultare datate e inattuali.***

<<Il naviglio grande è un canale navigabile che collega il fiume Ticino, appena a valle del lago Maggiore con il centro di Milano.
Deriva le sue acque dal Ticino in località Tornavento e…>>
<<Ma no! Prende acqua dalla diga di Somma!>>
<<Ma non dite minchiate, tutti e due! L’inizio del Naviglio è a Turbigo, dopo la centrale elettrica!>>

Come volevasi dimostrare!
Per quanto fondamentale per lo sviluppo di Milano, il Naviglio Grande è poco conosciuto, al punto che è persino difficile stabilire dove inizi.
La verità, come sempre, è nel mezzo!
L’incile storico è effettivamente a Tornavento, ma il grosso della portata del canale arriva, oggi, dalla diga del Panperduto, a Somma Lombardo, una quindicina di kilometri a nord.
Per maggiore dannazione delle nostre anime, oltretutto, oggi è Turbigo (altri 7 km a valle, circa) il “kilometro zero” da cui si misura il Naviglio.

Se non bastassero queste incertezze, complicare a la stesura di un percorso motografico ci si mette anche la topografia!
Tra Somma, Tornavento e Turbigo il naviglio e i suoi fratelli (il Villoresi e l’Industriale) hanno letti vicini, che si sdoppiano e si riuniscono , collegati da scolmatori e laghetti ogni due per tre.
Aggiungete poi il fatto che gran parte del corso alto dei canali è costeggiato da strade che non si possono percorrere in moto e capirete il perchè dell’avvertenza all’inizio di questo racconto.

LA DIGA DEL PANPERDUTO (SOMMA LOMBARDO)

Ripercorrendo l’itinerario in modo da seguire la corrente del Naviglio, la diga di Somma Lombardo è la nostra prima tappa.
Arrivarci è relativamente facile. Sempre ammesso che il vostro bancomat riesca a interfacciarsi col distributore sulla superstrada della Malpensa.
In caso contrario, se ci arrivate in riserva, preparatevi a sperimentare il terrore di rimanere a secco a Busto Arsizio.

Ah, dimenticavo che non tutti sono necessariamente fessi come me. Magari voi avete fatto benzina prima di partire.

Dicevo: arrivarci è relativamente facile, per quanto la diga non sia minimamente segnalata.
Ci sono dei lavori di ristrutturazione e si parla di una riqualificazione della diga che guarda al turismo, ma di indicazioni nemmeno a parlarne.
Si percorre la statale 336 da Busto in direzione Malpensa. Una volta raggiunto il terminal uno fate ciò che non avreste mai pensato di fare: rimanete sulla superstrada e andate alla scoperta del mondo oltre Malpensa.
Non serve proseguire a lungo, appena passato lo scalo la 336 ritorna ad essere una statale normale e piega a destra (nord) verso Somma Lombardo. Giunti in paese restate sulla 336 seguendo le indicazioni per Varallo Pombia.
Qui la strada scende lungo una ripida scarpata fino a toccare il Ticino in corrispondenza di un tornante.
Siete arrivati!
Dietro una macchia di alberi ecco la diga.

Il bell’edificio delle chiuse si staglia, candido, nel cielo oltremare del crepuscolo.
Nonostante questo, lo ammetto, la mia prima sensazione è stata quasi di delusione. Vista da qui la diga sembra molto più piccola di quanto mi aspettassi.

Avvicinandomi mi renderò conto che si tratta di una semplice illusione ottica. Non è la diga ad essere piccola, è il fiume ad essere davvero largo.
La diga in sè (o meglio, l’edificio di presa) è larga 70 metri, il letto del fiume qui arriva a quasi 300.

Tornavento, diga del Panperduto

“Pari nella fede e nella tenacia padre e figlio idearono e vollero canale e consorzio che il loro nome perpetuano”.
È una lapide posta su un lato della diga a celebrare Eugenio Villoresi, l’ingegnere che progettò e volle il canale omonimo e la diga stessa, e il padre Luigi che lo aiutò.
È scritta nel solito, retorico, agghiacciante italiano latineggiante che infesta le epigrafi delle nostre città, ma mi piace il fatto che il Villoresi sia ricordato nel punto dove nasce il capolavoro della sua vita.

Intorno a me il silenzio della campagna è rotto dal bordone cupo e roco, un basso continuo che contrasta con l’apparente immobilità del paesaggio.
È il suono dell’acqua che mugghia a valle della diga. Ogni tanto si sente lo scatto di un interruttore e una delle trenta paratie della diga prende vita e si apre.
Allora al bordone si aggiunge una nota più acuta. Dura qualche minuto, poi tutto torna come prima.

Da qui prendono vita il Canale Villoresi, appunto, che presto piega verso Est e si butta nell’Adda, ed il Canale Industriale.
Il più moderno dei canali della rete lombarda è considerato, oggi, il vero incile del Naviglio Grande.

Insieme all’incile storico questo luogo ha per me il valore di un pellegrinaggio. Come ogni canottiere che si rispetti nutro un amore quasi religioso per la “mia acqua”.
E la mia acqua è proprio il Naviglio Grande.

L’INCILE STORICO: TORNAVENTO

Nella mia famiglia c’è una fondata superstizione sul comune di cui Tornavento è frazione, e per questo non lo nominerò.
Ogni volta che qualcuno di noi c’è dovuto andare, ogni volta che se ne è anche solo dovuto parlare, è successo qualcosa.
Auto rotte, strade bloccate, ingorghi di ore su piccole provinciali immerse nella nebbia.
Immerse nella nebbia anche ad agosto.

Per questo ho una sottile inquietudine quando, arrivando da Somma lungo la SS336 anzichè girare a sinistra verso l’aeroporto proseguo verso sud, seguendo l’innominabile indicazione. Fortunatamente la mia preoccupazione non è giustificata.
Certo, andandomene mancherò per un soffio uno stupido fagiano che, dimentico di avere le ali, passeggia pacioso a centro curva; ma arrivando qui tutto va liscio e riesco a parcheggiare Aiko nei pressi della chiesa di Sant Eugenio.

La chiesa è costruita proprio sul limite della piana e da qui una scarpata scende ripida verso il Ticino.
La vista dal sagrato è impressionante: ho tutta la valle del Ticino ai miei piedi e di fronte a me la pianura piemontese, chiusa in fondo dalle alpi e dall’inconfondibile sagoma del Monte Rosa. 
Inconfondibile, naturalmente, a patto che voi non siate Giosuè Carducci.
Nel qual caso mi corre l’obbligo di informarvi che quello che state vedendo, mentre guardate un tramonto infuocato, non è il Resegone.

La scalinata che parte dal belvedere è ripida e vertiginosa e presto si inoltra nel tipico bosco lombardo, tanto bello quanto nemico dell’orientamento.
Il ponte che vedo sulla mappa sarà lungo questa deviazione del sentiero o sarò già andato oltre?
Sarà già il naviglio questo canale dall’alveo di cemento che sto attraversando su questo bel ponte di ferro? 
E quest’altro poco più a valle, allora, che cos’è?

Scala Idrometrica del Canale Villoresi

Insomma, ci vuole un’oretta buona prima che io riesca a riconciliare la mappa satellitare con quello che vedo davanti a me.

Finalmente, attraversati il Villoresi e il canale Industriale, tutto diventa più chiaro. Davanti a me c’è il il fiume, tagliato in diagonale da una specie di diga di ciottoli bianchi.
Verso sinistra l’acqua che supera questo sbarramento continuerà indisturbata verso Pavia,
A destra, invece, finalmente lui. Il mio Naviglio.

LA CENTRALE ELETTRICA DI TURBIGO (E L’ONDA STATICA)

Pericolo cascate

Ok, lo ammetto.
Fino a qui questo giro è piuttosto noioso per quelli di voi che hanno preso le loro goccine e quindi non condividono il mio interesse malato per il sistema dei Navigli.
Ma questa tappa, che cacchio, è di quelle da “101 cose da fare a Milano una volta nella vita”.

La vecchia centrale idroelettrica di Turbigo sfrutta la portata del Naviglio e del Canale Industriale, che qui si riuniscono, per generare elettricità.
L’effetto collaterale di questo sbarramento è l’ormai famosa onda statica, una delle pochissime in Italia.
A valle della centrale, dove l’acqua usata dalle turbine rientra nel canale, si forma un’onda continua, onda che permette ai surfisti di allenarsi senza bisogno di raggiungere il mare.

***Attenzione! Per quanto “domestico” possa sembrarvi il Naviglio, è un corso d’acqua piuttosto pericoloso. In questo punto, in particolare, la portata è enorme (arriva anche a 65 metri al secondo) e il fondo molto irregolare. La balneazione in queste acque è vietata e, ovviamente, non esiste un servizio di salvataggio. Se decidete di surfare l’onda statica, o di fare qualsiasi altra attività sportiva nel Naviglio, cercate di rispettare le minime norme di sicurezza e, se possibile, fatevi accompagnare da qualcuno che conosca bene la zona.***

Io ancora non ho avuto la fortuna di vedere i surfisti dal vivo ma, in compenso, sono rimasto incantato davanti alla centrale.
La struttura razionalista, in mattoni rossi, ha un che di scandinavo, di rigoroso che contrasta con l’atmosfera di abbandono tutto intorno.

Centrale idroelettrica

Le linee pure dei grandi finestroni rettangolari, bordati di bianco, l’angolo stondato della torretta, appena più alta del corpo principale ma per nulla tozza, il calcestruzzo che irregimenta le acque in eccesso in una serie ordinata di salti; tutto sembra disposto per armonizzare, per quanto possibile,
la funzione produttiva della centrale con l’estetica.

Centrale idroelettrica

Ma tutto intorno… Anche senza considerare l’orizzonte funestato dalle ciminiere della centrale nuova, quella termica, il paesaggio qui intorno è, a voler essere carini, decadente.
Sterpaglie che crescono nelle fessure dell’asfalto vecchio, muri scrostati e una rete arancione da cantiere che sembra messa lì non tanto per celare il fervore di qualche lavoro sugli argini, quanto per chiudere in permanenza l’accesso all’acqua senza nemmeno un parapetto degno di questo nome.

***Questa descrizione risale al 2011. Non escludo che nel frattempo la situazione possa essere cambiata.***

CASTELLETTO DI ALBAIRATE E IL NAVIGLIO DI BEREGUARDO

Ok. ok… Naviglio Pavese e Naviglio Grande son facili.
Se siete mai stati a Milano li avete visti di sicuro, per lo meno per fare un aperitivo.
Ma con il naviglio di Bereguardo si passa al livello “Pro”.

Per 400 anni porta di Milano per le merci in arrivo dal mare, oggi questo canale è praticamente dimenticato.

Castelletto di Albairate - Confluenza dei Navigli

Qui a Castelletto di Albairate il Naviglio Grande piega di colpo verso Est, punta dritto su Milano smettendo di seguire il corso del Ticino.
Nello stesso punto, con un’ampia ansa verso sud ovest, se ne stacca il canale che scende a Bereguardo. Appena a valle del ponte della Vigevanese (SS 494), la piccola chiesa di Castelletto si specchia proprio su questa doppia ansa.
Nonostante la grande strada passi praticamente sui tetti delle case, Castelletto ha ancora l’atmosfera di un borgarello di campagna. Un aria così tranquilla da parere immobile, come se a scorrere qui fosse solamente l’acqua dei canali, non il tempo che passa.

Castelletto di Albairate - Campanile

E infatti io, che sono un bambino di città, dopo dieci minuti rischio di impazzire e scappo verso Milano.

GAGGIANO

Per chi arriva da Milano, Gaggiano è sempre una sorpresa.
Ma anche per noi, che stiamo seguendo la corrente nel Naviglio per tornare in città, lo spettacolo del vecchio borgo, con il santuario Barocco di Sant’Invenzio e il palazzotto in stile quattrocentesco che si specchiano nel Naviglio è affascinante.

Certo, lo so perfettamente che è soltanto una quinta teatrale. Prendendo una qualsiasi vietta laterale, l’aspetto di Gaggiano cambia completamente.
L’atmosfera rurale che ci si respira sparisce e torna a farsi vedere la realtà di un paesone di periferia.
Troppo lontano da Milano per sentirsene parte ma troppo vicino per staccarsene.

Gaggiano - Borgo Vecchio

Ma qui, sulla sponda del canale, qui l’illusione tiene.
Ci sono le signore che spettegolano sulle panchine sull’argine, le case colorate una in fila all’altra, la balaustra di pietra, il ponticello curvo con la ringhiera in ferro.
Tutto come te lo aspetti.

Per alcuni anni, prima che un gruppo di coglioni razzisti bigotti senza un cazzo da fare* obbligasse il parroco a bloccare l’iniziativa, il Santuario di Sant’Invenzio ha ospitato la celebrazione milanese di Yemanja.
A Bahia, per celebrare la dea del mare, si gettano fiori bianchi tra le onde della baia.
Noi qui il mare non ce l’abbiamo, accidenti. E allora come facciamo?
La risposta è stata la stessa che si son dati, nella storia, i Visconti e gli Sforza: usiamo il Naviglio per portare il mare a Milano!
E così, al ritmo dei canti, delle timbe, dei pandeiri e degli agogo, ceste di fiori bianchi venivano riversate nel Naviglio e portate via dalla corrente.

le offerte 1

Però c’era troppa gente strana in giro, dicevano le merde, troppo rumore, troppa musica.

<<Sciur Mario, ha visto che robe ieri sul ponte? Tutta quella gente vestita di bianco coi tamburi…>>
<<Non me ne parli, Giovanna, non me ne parli. Pensi che sono passati sotto casa di mia nuora. Mi ha detto che c’era addiruttura una che ballava con tutte delle perline in faccia. La mia nipotina s’è spaventata ed è andata a nascondersi dietro la porta!>>
<<E pensi, pensi che l’orchestra era diretta da un nero… >>
<<Ah no, eh… Un nero qui a Gaggiano? Un negher all’oratorio? Ah no, ah no… Dobbiamo proteggere i bambini, prima che diventino neri pure loro!
Adesso ci scrivo subito una bella lettera di fuoco all’arcivescovo!>>

<<Bravo sciur Mario, bravo! Che lei scrive così bene! Anzi, ci scrivo pure io, che a me questo parroco qui non mi è mai piaciuto. Si comincia con i neri e poi chi sa dove si va a finire!>>>

E niente, purtroppo han vinto i baciapile di merda*.

TORNANDO VERSO MILANO

La moto viaggia dritta sulla ripa del Naviglio (SP 59 Vigevanese Vecchia).
Appena prima dell’abitato di Corsico, un tempo, due cascine abbandonate e diroccate si fronteggiavano sui due lati del Naviglio.

Per anni ho sognato di diventare abbastanza ricco per poterle comprare, ma a quanto pare sono stato preceduto.
La più grande – una struttura rinascimentale viscontea – è oggi affiancata da una costruzione moderna progettata dallo studio Peia Associati. I due edifici, insieme, fanno parte del grande centro cultural-religioso costruito dalla Soka Gakkai.

Qualche tempo fa l’apertura del centro Ikeda ha generato grandi polemiche in zona.
Oltre ai soliti arcinemici dell’architettura contemporanea, c’era chi non voleva l’installazione di un luogo di culto non cristiano sul territorio (che fossero i baciapile* di Gaggiano?), molti contestavano la Soka Gakkai accusandola di essere una setta nel senso deteriore del termine.

Io sulla Soka Gakkai non mi pronuncio. Non ne so abbastanza e onestamente nemmeno mi interessa così tanto, ma sono molto contento che l’antica cascina sia stata recuperata e riportata al suo splendore, specialmente se – davvero – sarà aperto anche ai non fedeli.

Certo, così il mio sogno immobiliare ne esce molto ridimensionato. Toccherà provare a comprare l’altra, sempre che non crolli prima.

*= se per caso leggi queste parole e ti riconosci in uno di loro, perdonami. Perdonami perchè sono stato sin troppo delicato. Ma contattami in privato, e ti dirò con dovizia di particolari cosa penso di te e dei tuoi amichetti. Coglione!

Per seguire tutti gli itinerari del Motografo lungo i Navigli puoi partire dallo Speciale Navigli di Milano.

Emilia Romagna, Italia, Lombardia, Piemonte

I TRE PASSI D’APPENNINO (GIOVÀ, BRALLO, PENICE)

290 km circa con andata e ritorno da Milano.

Secondo il principio di indeterminazione di Sheene-Heisemberg, non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione di un motociclista e la sua velocità.*
Il concetto di “orbita”, quindi, è sostituito da quello di orbitale, ossia la parte dello spazio entro la quale è massima la probabilità di trovare un motociclista.

I ricercatori del CERN hanno recentemente pubblicato uno studio in cui si descrive l’orbitale della città di Milano, considerato del tipo “a doppio lobo” (orbitale p).
I due lobi dell’orbitale sono orientati nord-est/sud-ovest e giacciono paralleli alla pianura,
Se il lobo nord si allunga da Lecco verso le alpi, arrivando a toccare Chiavenna e Madesimo, quello sud investe gli Appennini là dove la catena va a formarsi, toccando le province di Pavia, Piacenza, Genova e Alessandria.

In parole povere, lo studio dimostra che se in una domenica pomeriggio voi voleste cercare un motociclista milanese, avreste la massima possibilità di incontrarlo tra Lecco e Sondrio o nell’Oltrepò Pavese.

Io sono un motociclista e sono milanese, quindi non faccio eccezione.
Che sia inizio primavera, quando i primi caldi invogliano a far girare un po’ la moto per scrollarle di dosso l’umido accumulato sotto i diluvi invernali; o che sia ormai autunno inoltrato, quando una domenica di sole è un regalo inaspettato da cogliere all’improvviso, senza aver pianificato nulla, poco importa.
Esco di casa, imbocco l’A7 e immancabilmente finisco a Varzi.

Al Passo del Penice c’è un bar/ristorante – chiamarlo rifugio mi pare eccessivo – ma dal parcheggio uno potrebbe pensare a un concessionario di moto.
Praticamente chiunque abbia una motocicletta tra Milano, Lodi, Piacenza e Pavia prima o poi passa di qui e si ferma per un caffè. Di solito si sale da Piacenza lungo la bella e veloce Statale 45 (velox praticamente ovunque, fate i bravi e non esagerate con la manetta) e poi affrontando il versante più ripido del passo. Si sale da Bobbio e si arriva su davvero in quattro tornanti.
Quel coso strano nel parcheggio, una specie di mappamondo con sopra una statua, non è un simbolo massonico, bensì un monumento votivo a San Colombano, santo che proprio qui è stato proclamato patrono dei motociclisti nel 2002.

Se invece siete dei devoti old school, bastano poche curve ancora per raggiungere la vetta del monte ed il Santuario di Santa Maria, seicentesco, che è nettamente più interessante.
Più interessante è anche la vista. Dal ristorante del passo non si vede nulla. Troppi alberi tutto attorno, la vetta incombente del Penice da una parte, nessun sentiero sensato percorribile…
Salendo in vetta, invece, finalmente si esce dal bosco e lo sguardo spazia libero in tutte le direzioni, tra Lombardia, Emilia e Liguria.

Visto che il passo del Penice è meta della maggior parte degli smanettoni invasati di tutta la Lombardia, gente che a ogni curva cerca di mettere il gomito a terra disinteressandosi di concetti basilari come “non uscire contromano da una curva cieca”, negli anni ho cercato percorsi alternativi per godermi queste colline senza dovermi continuamente preoccupare di un novello Bautista che mi scentri nel tentativo di passarmi con una staccata al limite in discesa.

Uscito dall’autostrada mi lascio alle spalle Voghera senza dimenticare di dedicare un pensiero alla sua casalinga, simbolo della mediocrità assoluta e principale responsabile dell’esistenza di aberrazioni come “Ti lascio una canzone”.
Mi metto in marcia verso sud lungo la statale 461 del Penice, che per ora mantiene un andamento sostanzialmente rettilineo e abbastanza noioso.
Supero Retorbido – una squallida storia di gossip nella famiglia reale sta dietro a questo nome, suppongo – e Rivanazzano e proseguo ancora dritto come un fuso verso Varzi.

***A Nazzano, la frazione alta di Rivanazzano, c’è un bel castello dell’undicesimo secolo ma vi avviso: se appena appena un germe giacobino alberga nel vostro cuore non andateci, o vi ritroverete a far barricate inneggiando alla ghigliottina. Il castello – meravigliosamente conservato – che incombe sulla Val Staffora è, infatti, la residenza privata di una nobile famiglia della zona.***

Poco prima di Varzi, a Ponte Nizza, buttatevi sulla destra seguendo per San Ponzo Semola.
E non prendetevela con me, che ci posso fare io se nella bassa pavese in Oltrepoò si divertono a dare nomi ridicoli ai paesi.
Superate il paese seguendo le indicazioni per le grotte. Poco dopo l’abitato, sulle prime rampe della collina, una strada sterrata si stacca dalla principale, mentre sulla vostra destra si trova un bel vigneto.

Autunno

Potreste, volendo, salire per la sterrata con la moto, ma io vi consiglio caldamente di lasciarla qui, accanto alle belle vigne, e di incamminarvi a piedi. Una mezzoretta di cammino facile facile vi porterà alle grotte di San Ponzo.
È buffo a pensarci: sono un senza Dio se mai ve ne furono. Non sono battezzato, non vado in chiesa, tempio, moschea o sinagoga e l’unica cosa in cui credo – l’uomo – fa del suo meglio per farmi dubitare, eppure sono sempre qui a parlarvi di chiese, eremi e templi di ogni tipo…
San Ponzo, si dice, fu un soldato della Legione Tebana fuggito alla decimazione e rifugiatosi da queste parti dove, quando non convertiva al cristianesimo i locali – per maggiore incazzatura dell’Imperatore – viveva da eremita in queste caverne. Le sue ossa, pare, sono conservate sotto l’altare della piccola chiesetta. Altri dicono che queste ossa sarebbero di un altro Ponzo, anche lui eremita, martirizzato durante le lotte con gli eretici nel medioevo.

Grotte di San Ponzo - Cappella dell'Eremo

Poco importa, francamente. E comunque, probabilmente sono le ossa di un pastore di capre o di un vignaiolo. Ciò che conta è la bellezza di questo luogo dove una modesta chiesucola romanica, poco più di una capannuccia di sassi, sta incastrata nella grotta in cui viveva il santo: un ampia spaccatura nella roccia che si innalza di colpo, trasformando d’improvviso il paesaggio da quello di una dolce collina a quello di un aspro dirupo.
Pochi metri più in là una seconda grotta, dove pare il santo dormisse.
Rispetto al piano del sentiero c’è da arrampicarsi sulla roccia verticale e liscia per circa tre metri. Il CAI ha messo delle corde fisse e dei ferri per aiutare nella salita e, soprattutto, nella discesa. La devozione popolare dice che il pellegrino che sale in questa grotta a piedi risolverà ogni problema di mal di schiena e dolori reumatici. Resta da capire dove diavolo un pellegrino coi reumatismi trovi l’agilità per salire fino a lì.

Grotte di San Ponzo - la grotta miracolosa

Ripresa la moto, torniamo sulla strada principale e continuiamo a salire verso Varzi (bel borgo medioevale, vale la pena di fermarsi una mezzora a girare per le sue strade). Entrando in paese troverete un benzinaio. Se non avete ancora fatto rifornimento, fatelo ora, che da qui in poi potete scordarvi di trovare pompe lungo la strada.

Passiamo velocemente oltre, che vi ho promesso tre passi appenninici e non ne avete ancora visto mezzo! Appena fuori Varzi, in località Casa Ien, lasciamo la statale del penice e pieghiamo a destra seguendo il Torrente Staffora verso Brallo di Pregola e il passo del Giovà. Seguiamo la provinciale 186 (Del Brallo) sino a Mulino San Pietro e, poi, giriamo a destra per il Giovà, prendendo prima la provinciale 48 e poi – per non farci mancare nulla, la provinciale 90 che passa da Cegni.
Ora, è giusto che io sia onesto con voi. Preparatevi a percorrere una delle peggiori strade del Nord Italia. Probabilmente avrebbe senso tenersi sulla 48, che tanto al Giovà ci sale lo stesso, ma il mio dovere è raccontarvi la strada che ho fatto io, o mi sbaglio?
La provinciale 90, prima di tutto, è stretta. Stretta che quando incontrate un altro motociclista che scende nel senso opposto le vostre dita, protese nel classico saluto, sfiorano le sue.
A meno che, naturalmente, non sia un guidatore di BMW. Allora non c’è pericolo, tanto non vi saluterà.
L’asfalto è rovinato. In certi punti la strada è proprio franata e anzichè cercare di ripristinarla è sembrato più pratico colare asfalto nell’avvallamento e via andare**.

Fino a Cegni la strada è ripida e tortuosa, poi prosegue abbastanza rettilinea sulla costa del monte Chiappo (ehi, non prendetevela con me, già ve l’ho detto che ‘sta gente fa a gara a dare nomi assurdi ai posti!). In questo tratto è frequente che la vista si apra ad abbracciare la Val Staffora, e questo è il motivo principale per cui vale la pena di affrontare questa stradaccia!

0018 - La luce soffusa del primo autunno (SP 90 strada del passo del Giovà)

Raggiunto il Passo del Giovà si lascia il Monte Chiappo e si affronta il versante del Monte Lesima. La provinciale 88 corre in costa con un andamento relativamente poco tortuoso fino al passo del Brallo.

Autunno

Dei tre passi il Brallo è certo il meno scenografico, salvo dare il nome ad un personaggio che è oggetto di culto da queste parti.
Se volessimo salire al Penice dalla Lombardia e scendere verso Piacenza, a questo punto potremmo restare in costa e fare la provinciale 89 che si reinnesta sulla statale del Penice a pochi tornanti dal valico.
Ma è una strada del cacchio. Fa schifo quasi quanto quella del Giovà e non ha nessuno scorcio paesaggistico. Corre, stretta e male asfaltata, in mezzo ai boschi che chiudono la vista da ogni lato. Lasciate perdere. Scendete, invece, verso la Val Trebbia.

La luce soffusa del primo autunno

Da Brallo di Pregola potreste, per esempio, percorrere ancora la 186 verso Ponte Organasco staccandovene, come ho fatto io, all’altezza di Pratolungo seguendo per Lago.
Ma potreste scegliere una qualsiasi delle provinciali che scendono in Emilia.
Sono tutte strette e tortuose e ripide, ma di solito ben tenute.

Sul fondo valle seguite per Bobbio, godendovi la bella Statale 45. Ve l’ho detto di stare attenti ai velox? E allora datemi retta, mica che poi venite a lamentarvi con me se vi arriva una multa gigante!

Bobbio – lo dico per i foresti – nulla ha a che vedere con gli omonimi piani.
Anzi, onestamente nulla ha a che vedere con i piani in genere. Credo che sia un po’ in pendenza persino la piazza del mercato.
Per motivi inspiegabili il passo del Penice non è gran che segnalato in paese. Per sicurezza seguite per Campore e poi rimanete sulla statale 461.
Su questo versante si tratta veramente di fare poche curve e arriverete a quel ristorante di cui vi parlavo all’inizio.
Preso il caffè? Visitato il santuario?

Bene, da qui è – letteralmente – tutta discesa.
La statale verso Varzi è molto più rettilinea e, pochi kilometri sotto il passo, esce dal bosco e prosegue tra i pascoli assolati con un bel tracciato e alcuni scorci panoramici.

È giunto il momento di tornarcene verso casa, dite?
Momento! È il caso che finalmente vi riveli il vero, unico, motivo di questa gita.
L’Oltrepò di Pavia, certo, è terra di colline splendide ma inaspettatamente aspre, di belle strade di montagna e di santuari nascosti nei boschi.
Ma, soprattutto, è terra di salami!

Il salame di Varzi è un’istituzione. Di più: è una leggenda. Ma che dico: è una fede.
Io mi rifornisco qui, dove compro anche dei mieli straordinari e dei formaggi da far resuscitare i morti, ma qualsiasi salame del consorzio è una certezza.

Souvenir d'Oltrepò

***All’attenzione del salumificio Thogan Porri e dell’azienda agricola Oramami: io vi ho citati perchè sono seriamente un fan dei vostri prodotti, non mi aspetto nulla in cambio. Ma se volete coprirmi d’oro (o di salame e formaggio, che è meglio), trovate i miei contatti nell’apposita sezione***

Ecco, ora che il vostro zaino è pieno di delizie potete tornare verso casa!

VARIANTE: VOLPEDO E LA PITTURA SOCIALE

Se non avete voglia di camminare nei boschi di San Ponzo o se semplicemente siete amanti dell’arte, potete, arrivando da Milano, uscire dalla A7 a Castelnuovo Scrivia anzichè a Casei Gerola e seguire le indicazioni per Volpedo.
Qui, oltre all’ennesima pieve romanica (pare che in ‘sta zona spuntino ad ogni pioggia come i funghi), potrete visitare i luoghi di Giuseppe Pellizza.
Lo studio/casa/museo non offre grandissime attrattive, a meno che non siate dei veri appassionati di Pellizza: qualche opera minore (ritratti dei genitori), la biblioteca del pittore e i suoi attrezzi.
È il Museo Didattico – che affaccia sulla piazzetta in cui è ambientato il capolavoro del pittore – a meritare davvero una visita: al piano interrato, infatti, è possibile vedere una bella installazione multimediale che ricostruisce la figura di Pellizza e il percorso di elaborazione del quadro simbolo del movimento dei lavoratori: Il quarto stato.

Entrambi i siti sono aperti grazie all’opera dei volontari del paese, con i quali è assai piacevole fermarsi a chiaccherare e da cui farsi raccontare aneddoti sulla vita di Pellizza stesso.
Per questo, vi prego, non fate i pezzenti come al solito. Lasciate un’offerta per il mantenimento del museo!

Lasciate Volpedo e rimettetevi in marcia lungo la Val Curone. Seguite le indicazioni per Pozzol Groppo prima e poi per Biagasco e, infine, Ponte Nizza, dove ci riallacciamo all’itinerario originale verso Varzi.

*= Il teorema è stato recentemente messo in discussione dallo sviluppo tecnologico. I laboratori della Polizia di Stato, infatti, dispongono dei nuovi microscopi a scansione T-Red e Auto-Velox che pare siano in grado di rilevare posizione, velocità e identità di un singolo motociclista.
**= Questo era vero l’ultima volta che l’ho percorsa. Se nel frattempo la strada è stata migliorata, fatemelo sapere!

Italia, Lombardia, Verbano

IL PASSO DEL CUVIGNONE

Circa 190 km (A/R con partenza da Milano) + deviazioni

È una salita di culto. Qui si è allenato il gotha del ciclismo italiano, da Binda a Basso.
È il tracciato della speciale più prestigiosa e tecnica del rally dei laghi.
Queste sono le informazioni che si trovano in rete sulla Provinciale 8 del Passo del Cuvignone.

Curiosamente nemmeno una parola da parte dei motociclisti.
Un motivo ci deve essere, ma nella mia incoscienza non mi chiedo quale sia.

Conosco queste zone sin da bambino e penso di sapere cosa aspettarmi, per quanto non percorra questa strada da almeno 25 anni.
Penso.
E come quasi sempre mi sbaglio…

Per raggiungere il Cuvignone si esce dalla diramazione A8/A26 a Sesto Calende – Vergiate e si seguono le indicazioni per Laveno Mombello.
La statale 629 ha due ampie carreggiate scorrevoli che si snodano con dolci curve tra le colline e i laghi dell’Alto Varesotto. Un tracciato che invita a correre.
Gravissimo errore!
Anche tralasciando i temibili semafori a tre tempi che spezzano continuamente il ritmo, questa statale è disseminata di autovelox pronti a cecchinare anche la minima violazione!

Chiesa di San Pietro in Gemonio - Facciata

Arrivati a Gemonio la strada si stringe e piega verso sinistra per Coquio Trevisago. Proprio qui, nascosta dagli alberi di una piccola aiuola, sorge la chiesa di San Pietro. Ora, anche se siete i classici barocchisti che hanno bisogno di ori, marmi, colonne tortili e facciate curve, fermatevi un secondo e provate ad apprezzare la potenza severa del romanico lombardo. Le linee rigorose, la pietra locale a vista, che si confonde con le montagne circostanti. Niente? Non funziona? Troppo sobrio? Vabbè, provate almeno a entrare a godervi gli affreschi medievali da poco restaurati.

Chiesa di San Pietro in Gemonio - Madonna con Bambino

Cosa? Come dici?
Sì, quello sull’altare è un fiore della vita. Un sole delle alpi, se preferisci.
No, non c’entra nulla la Lega. Non sono – ancora – arrivati a vandalizzare un altare dell’anno mille. E lo so che Bossi vive a Gemonio, ma non c’entra un cazzo.
Avrà visto il simbolo qui sull’altare e l’avrà ricilcato, che ti devo dire…

Chiesa di San Pietro in Gemonio - Decoro dell'altare

Appena oltre Coquio arriviamo a Cittiglio.
Arrivati in paese dobbiamo piegare a sinistra verso Laveno Mombello e poi, nei pressi dell’ospedale, buttarci a destra in via Vararo, dove inizia la temibile provinciale 8.

Avete mai guidato su una strada di montagna in Francia?
Avete presente quei begli asfalti uniformi, puliti, senza buche, ruvidi il giusto? Quei tracciati tortuosi ma guidabili? Quei tornanti ampi e fluidi?
Ecco, dimenticateveli!

La strada del Cuvignone si inerpica stretta, polverosa, con un asfalto che si sgretola e dei tornanti strettissimi in cui il contromano è la norma, il piede a terra, spesso, una necessità.
Passato il piccolo abitato di Casere , ormai in quota, la strada si fa meno tortuosa, ma rimane sporca, stretta e scivolosa.
Vabbè, mi dico, il panorama dalla cima mi ripagherà della fatica. Penso di sapere cosa aspettarmi, ve l’ho detto.
E mi aspetto una vista aperta sul lago, o per lo meno un belvedere. Sbagliato. Nulla di tutto questo mi attende. Per lo meno non a primavera inoltrata.
Sarebbe bastato uno sguardo alle foto satellitari per rendermi conto del fatto che il monte è completamente coperto di bosco.
So che alla mia sinistra ci sono il Lago Maggiore, la Val Grande, il Monte Rosa.
Ma lo so per conoscenza accademica, perchè dalla strada non si vede nulla.
Dopo un po’ di serpeggiamenti, oltrepassato il rifugio (che oggi è chiuso), si apre uno squarcio nel muro verde. Non molto, quel tanto che basta, però, perchè mi venga voglia di inchiodare e fermarmi un attimo.

Spento il motore resta solo il silenzio del bosco. Io e F. sentiamo, appena sotto di noi, il rumore di una cascata. Non possono essere le famose (?) cascate di Cittiglio, siamo sul versante sbagliato. Come novelli Livingstone scavalchiamo il guard rail e seguiamo il gorgoglio delle acque.
*** Per bassa che sia, anche questa è una montagna. E pure abbastanza aspra. Lasciare la strada richiede prudenza. State attentini, non fatemi preoccupare! ***

0006 - Verso valle

È uno dei tanti rigagnoli che sgorgano in questa zona, probabilmente non ha nemmeno un nome. Probabilmente è secco per gran parte dell’anno. Ma oggi un’acqua gelida e cristallina si tuffa tra le rocce spaccate con saltelli, cascatine e piccole rapide molto suggestive.
Siamo tentati di proseguire a piedi lungo il rivo, verso valle, ma poco oltre questa piccola pozza il percorso si fa abbastanza arduo. Scendere non sarebbe, forse, un problema. Risalire però sarebbe tutta un’altra storia.

0002 - La cascata nel bosco

Oggi giornata di scoperte! Ad esempio scopriamo che nè le mie scarpe da trekking nè gli anfibi di F. sono mai stati testati su questi terreni.
Peggio del ghiaccio, della neve, dei più friabili ghiaioni dolomitici, un letto di foglie marce di castagno ci rende quasi impossibile il ritorno sulla strada, costringendoci ad aggrapparci ad alberi e guardrail e a sospingerci a vicenda, tra uno scivolone e l’altro, al grido di
Salvati almeno tu!!!

Proseguendo si arriva a Sant’Antonio, all’innesto con la Provinciale 7 delle Marianne.
Il nostro giro proseguirebbe a Sinistra, verso il lago, ma io vi consiglio di deviare a destra per qualche kilometro e fermarvi ad Arcumeggia.

Destinato a spopolarsi e a diventare uno dei tanti paesi fantasma delle prealpi, questo piccolo borgo affacciato sulla Valcuvia ha voluto usare la pittura per salvarsi.
A partire dagli anni ‘50 molti grandi pittori italiani (Sassu, Tomea, Treccani, Carpi…) hanno affrescato le pareti delle vecchie case di pietra, rendendo questa piccola frazione di Casalzuigno un vero museo a cielo aperto.

Ora potreste decidere di tornare a valle passando da Casalzuigno, scendendo da una stradina tutta tornanti peggiore di quella da cui siete venuti (ma piuttosto breve) oppure decidere – come me – di tornare in su e scollinare verso il lago.
La strada per tornare a Sant’Antonio è quasi dritta e piuttosto pianeggiante, ma presto lo scenario cambia.
Una discesa ripida spezzata da tornanti molto stretti piomba verso Nasca e Castelveccana.
Giunti all’incrocio con la Provinciale 69 giriamo a sinistra di nuovo, proseguendo per Caldè. Da qui la strada si avvicina alla riva del lago regalando alcuni begli scorci sull’Alto Verbano e sui monti della sponda piemontese.

Da Laveno, ancora una volta, potreste semplicemente riprendere la strada di casa, ma datemi retta ancora un attimo, una quindicina di kilometri di deviazione non vi uccideranno di certo..
Attraversate Laveno senza girarvi indietro e proseguire lungo la 69 seguendo per Cerro e, poi, per Reno.

Qui troverete un’indicazione per Santa Caterina del sasso. Seguitela fino al parcheggio.
Se foste dei vecchi o dei ciccioni con le Hogan potreste prendere l’ascensore ma, siccome non lo siete, fate le scale, che tanto sono in discesa.

Gli scorci sul lago, se è una bella giornata, vi daranno l’illusione di essere al mare.
Ok, magari non in Sardegna o alle maldive. Sul Mar Ligure, diciamo. Ma pur sempre sul mare. E invece siete in provincia di Varese!

L’eremo, invisibile da terra, è arroccato su una stretta terrazza di roccia a picco sul lago.
Scesa la scalinata (e dribblati i ciccioni con le Hogan in arrivo dall’ascensore) vi trovate davanti una porticina. Un piccolo edificio apparentemente anonimo che, per un gioco prospettico, nasconde agli sguardi un monastero fatto di un collage di pezzi costruiti in trecento anni, dal 1100 in poi.
È un complesso medioevale meraviglioso e unico. Al posto del canonico chiostro cui siamo abituati, i monaci che vivevano qui meditavano e passeggiavano guardando direttamente il lago, venti metri sotto, coperti dal bel portico che collega il refettorio dell’eremo con la chiesa di Santa Maria Nova e San Nicolao.

È il momento di tornare verso casa. Dobbiamo solo risalire verso il parcheggio.
Abbiamo già stabilito che non siete dei ciccioni con le Hogan, vero? E allora lasciate perdere l’ascensore e fate le scale.

Normalmente vi direi di evitare i negozi di souvenir come la peste, ma in questo caso faccio un’eccezione. La “Farmacia di Ildegarda”, accanto al bar dell’eremo, vende un clamoroso liquore a base di vino cotto e spezie (Lacrimae Rerum) di cui va fatta incetta assolutamente!

Italia, Lombardia, Speciale Navigli di Milano

LE CONCHE DEL NAVIGLIO PAVESE

Per tutti i Milanesi il “Naviglio dei Barconi” è la classica cornice degli aperitivi. Una scenografia folkloristica e un po’ positiccia che inizia in Darsena e finisce un kilometro più in là, alla Conchetta.
Ma solo pochi conoscono la sua storia.
Io per primo la ignoro del tutto.

Ma è domenica mattina, sono sveglio presto e non so che fare, così mentre faccio colazione mi studio un po’ di siti e scopro una vicenda tutto sommato breve (rispetto a quella del Naviglio Grande), ma affascinante come poche.

Il sogno di una via d’acqua navigabile per collegare Milano al Po – e di conseguenza al mare – risale almeno al ‘400, ma la sua realizzazione inizia solo nel 1600 quando Filippo il Pio finanzia un progetto voluto dal Governatore Fuentes.
Come l’inventore del panettone e quello del risotto giallo, Fuentes può vantarsi di essere l’iniziatore di una tradizione milanese sopravvissuta sino ai giorni nostri.
In particolare, il Fuentes ha inventato la tradizione dell’opera pubblica incompiuta.
Erano state scavate appena due miglia di canale quando fece costruire un monumento per celebrare il collegamento navigabile dei laghi con il mare, peccato che da quel momento in poi i lavori si sarebbero fermati come scavi del Passante ante litteram.
Ci vorranno prima Napoleone e poi gli Austriaci – e un paio di secoli – per vincere le resistenze dei Pavesi e completare finalmente lo scavo.

Ok, affascinante magari è un’espressione un po’ forte ma, ve l’ho detto, è domenica mattina, è Agosto e io non ho nulla da fare.

E così dopo pochi minuti sono in moto, con un progetto in testa.
Fotografare tutte le conche del Naviglio Pavese da Rozzano fino al Ticino.

Progetto che, ovviamente, va in vacca già alla prima tappa.

So che esiste una conca a Rozzano. L’ho vista anni fa dal balcone di casa di un amico, ma per quanto io giri come uno scemo per mezzora non riesco più a trovarla. E non ci riuscirò mai più, nemmeno negli anni seguenti.

Le conche – non chiamatele chiuse, che sono tutta un’altra roba – sono la caratteristica principale del Naviglio di Pavia.
Il Grande e la Martesana arrivano a Milano completamente liberi. Le loro correnti, salvo cedere acqua alla fitta rete di canali che irriga la pianura, non sono regolate e scorrono senza intoppo dall’incile a Milano.
Sul canale che scende a Pavia non è così. Per consentire ai barconi di superare controcorrente i cinquanta metri di dislivello, sono necessarie ben dodici conche.

La conca di Moirago, invece, è proprio sulla strada. È una bella struttura. Solida, ben ristrutturata con lo stile usato a Milano per la Fallata e la Conchetta. C’ha pure i cespugli fioriti davanti alla casetta del custode. Ma appena entro in provincia di Pavia la musica cambia completamente.

A Casarile la conca è abbandonata e arrugginita. Mentre la fotografo incontro il Signor Vito.

Interno della cabina di manovraVito è il titolare di una carrozzeria che si affaccia proprio sul naviglio e che mi chiede se lavoro per qualche ente, se per caso – finalmente – si sta pensando a una riqualificazione del Naviglio. Cabina di manovra e la carrozzeria del signor Vito

Vito è arrivato a Casarile dalla Puglia negli anni ’60. Ha aperto l’officina e, quando è nata sua figlia, ha piantato un albero di fichi neri. Me ne offre un paio mentre mi mostra la jaguar d’epoca che sta restaurando a tempo perso.

***Voglio essere onesto. Sono una bestia. Avevo perso per strada anche questa conca. Il mio incontro con il Signor Vito risale a un paio di anni dopo le vicende narrate sin qui***

Oggi fa caldo e c’è un bel sole, il cielo è limpido e l’aria tersa come raramente capita da queste parti, ma posso facilmente immaginare questi luoghi avvolti nella nebbia e nel gelo di Novembre, le shilouette scheletriche dei pioppi spogli sfocate sullo sfondo, l’urlo della cascata come basso continuo e l’inquietudine che stringe la bocca dello stomaco del malcapitato passante.

Amici cinematografari! Datemi orecchio!
Volete cavalcare il successo di The Walking Dead? Stracciare al botteghino Shutter Island? Superare gli ascolti di Les Revenantes?
Mollate i set posticci di Cinecittà, al diavolo i teatri di posa e le location, venite a Certosa di Pavia!

Girando tra le strutture arrugginite della vecchia conca mi convinco che qui si deve essere abbattuta una qualche sciagura sovrannaturale. Un rapimento alieno, un’apocalisse zombie.
Qui nel 1965 non hanno deciso di cessare l’esercizio. Hanno semplicemente chiuso la conca la sera per andare a casa e tornare l’indomani. Un indomani che ancora non è giunto.
Nel casello di comando ci sono giornali, tolle di lubrificante, un pacchetto di Nazionali filtro e altra roba ancora. I bacini sono accessibili. Basta scavalcare mezzo metro di ringhiera rugginosa e ci si può sedere sul molo che li separa, con i piedi a penzoloni mentre quattro metri sotto, nel bacino libero, il Naviglio mugghia dopo il salto.
***Ah, già che siete a Certosa, mi raccomando, non perdete l’occasione di visitare la splendida abbazia che dà il nome al paese!***

0021 - Conca di Pavia Borgarello - Giunto delle rotaie della porta di uscita del bacino di scorrimento

Questa sensazione di abbandono sarà tipica di tutte le conche da qui in poi. Da quella piccola di Borgarello, nelle cui acque un carrellino da trasporto arrugginisce indisturbato da cinquant’anni, alla grande conca doppia della confluenza. Monumentale. Che potenzialmente potrebbe essere il centro di una meravigliosa area verde e storica. E che si affaccia, invece, su ciò che rimane della darsena di Pavia: rovine di cemento e ferro rugginoso tra sterpaglie e robinie.

La storia dice che i pavesi sono sempre stati ostili al progetto del Naviglio e che, in un certo senso, l’hanno sempre vissuto come un corpo estraneo. Può sembrare un’esagerazione. Eppure ne ho avuto le prove proprio oggi.
La mia famiglia è originaria di queste parti e ho dei cugini che abitano proprio in città.
Cinquecento metri da qui in linea d’aria, per l’esattezza.
È tanto che non li vedo, e allora telefono a Cugino R.

0037 - Conca di Viale Venezia Viale Partigiani - Acqua a valle con la conca della confluenza sullo sfondo

<<Cugino R.! Ciao, sono Il Motografo! Sono a Pavia. Se sei a casa magari passo a trovarti.>>
<<Volentieri. Sai arrivare qui da noi?>>
<<No, ma non sono lontano mi pare. Sono alla vecchia darsena. Dove il Naviglio sfocia in Ticino>>
<<Eh? Non ho mica capito…>>
<<Dai, Viale Venezia, dove c’è la mega-chiusa del Naviglio…>>
<<…uh…>>
<<Vabbè, Cugino R., vabbè… dimmi solo l’indirizzo preciso che lo cerco sulla mappa!>>

Itinerario originariamente percorso ad Agosto 2010, con ripetizioni e integrazioni negli anni successivi.
Circa 50 km (A-R)

Per seguire tutti gli itinerari del Motografo lungo i Navigli puoi partire dallo Speciale Navigli di Milano.