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Lombardia, Varese

LA TOSCANA LOMBARDA

Circa 140 km, più altrettanti perchè mi sono perso 30 volte

La provincia di Varese è quel posto in cui una località con due stelle sulla guida verde del Touring non è indicata sul cartello di uscita della tangenziale.
Sai mai che qualcuno da fuori voglia venire a dare un occhiata. Magari persino un – Dio ce ne scampi – Meridionale…
Ma per fortuna il vostro Motografo di fiducia (che essendo nato a Milano per i Varesotti è un Meridionale) è qui per rimediare dandovi tutte le indicazioni del caso.
Per raggiungere Castiglione Olona – da Milano – dovete Prendere la A8 uscendone a Gazzada per poi rientrare immediatamente in autostrada sulla A60 (occhio: non ha i caselli ma si paga) in direzione di Gazzada/Ponte di Vedano fino a Vedano Olona.
Uscite e, alla rotonda, proseguite sulla Varesina (SP233) in direzione Milano/Tradate.
Fate ancora qualche kilometro e, finalmente, ecco Castiglione.
Non c’è di che.

Ok, ma voi vi starete chiedendo cosa diavolo abbia di così straordinario Castiglione Olona per meritarsi due stelle sulla Guida Verde della Lombardia.
Per capirlo bisogna tornare al 1425 quando il Cardinale Branda Castiglioni, un arzillo 75enne protagonista delle principali vicende spirituali e temporali del suo tempo, torna al suo paesello natale nella Valle dell’Olona e lo trasforma in pochi anni nel primo centro dell’architettura umanistica e rinascimentale in Lombardia.

Borgo - Arco

Per rendersi conto di ciò di cui stiamo parlando bisogna tener conto del fatto che in quel momento la cupola del Duomo di Firenze non era ancora terminata, Leon Battista Alberti e il Filarete avevano 20 anni o poco più mentre Bramante e Leonardo non erano nemmeno nati.
L’architettura lombarda in quel periodo è ancora pienamente medioevale. I grandi capolavori della versione locale del gotico sono, si può dire, ancora moderni. Il Duomo di Milano è appena all’inizio della sua vicenda costruttiva (conclusa solo negli anni ‘30 del ‘900), tanto che l’altar maggiore è stato consacrato, proprio da Branda, solo sette anni prima.

È in questo contesto che Branda inizia il suo programma di riedificazione e infatti la Collegiata – il primo degli edifici voluti dal Cardinale – ha ancora un aspetto sostanzialmente medioevale, con la sua facciata a capanna su cui si aprono monofore ancora a sesto acuto.
Eppure già il portale di ingresso – datato 1428 – inizia a parlare una nuova lingua grazie alla sua lunetta a tutto sesto che richiama, alla mia mente di profano, le architetture che fioriranno a Milano 50, anche 100 anni dopo.

Collegiata - Facciata

Ma se la struttura è ancora fondamentalmente gotica, è il suo apparato iconografico a fare un balzo in avanti aprendo, nei fatti, il Rinascimento lombardo.
Le opere di Paolo Schiavo, del Vecchietta e soprattutto il ciclo della Vergine di Masolino da Panicale – protegée di Branda che lo aveva conosciuto in Boemia – portano in Lombardia la prospettiva, la composizione spaziale e la ricerca dell’illusionismo dei maestri della pittura Toscana del tempo.

Collegiata - Scene della vita della Vergine - Masolino da Panicale

È sempre Masolino ad affrescare il battistero annesso alla chiesa.
Sebbene molto rovinato – specialmente sulle pareti nord e ovest – il ciclo di affreschi sulla vita di Giovanni Battista dimostra tutta la maestria e la novità della pittura di Masolino.
Il Battesimo di Cristo, al centro vale da solo il prezzo del biglietto (6€, più altri 6 per il biglietto fotografico).

Battistero - Battesimo nel Giordano - Masolino da Panicale

Battistero - Figura di moro - Masolino da Panicale

Nei pochi anni tra l’avvio dei lavori della collegiata (1425) e la morte di Branda (1443) Castiglione è un cantiere continuo che neanche Milano prima di Expo 2015.
Il palazzo, prima di tutto. Su una struttura trecentesca Branda fa edificare un nuovo corpo caratterizzato da un decoro geometrico e da una delicatissima loggetta da cui si domina la piazza centrale del paese.

Palazzo Branda - Facciata

Il palazzo è stato grandemente rimaneggiato nei secoli (notevole una sala con affreschi neogotici di inizio ‘900 nella zona della quadreria), ma nella loggetta e nelle sale note come la camera da letto e lo studio del Cardinale gli affreschi originali quattrocenteschi sono perfettamente conservati e sorprendono per la grazia e la potenza.

Palazzo Branda - Natura Morta - Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta

Palazzo Branda - Camera da letto 4

Gli affreschi a tutta parete, dal soffitto al pavimento, mi stupiscono sempre e quello della camera da letto (dove probabilmente Branda non dormiva affatto) è particolarmente impressionante. La fascia principale è, ai miei occhi, di una modernità incredibile grazie all’effetto “cut-off” dato dagli alberi neri, bidimensionali, che si stagliano su un rosso brillante incredibile.

Palazzo Branda - Camera da Letto 5

Ma il gioiello vero è nella piccola stanza accanto, lo “studio”: Sopra a due splendidi mappamondi seicenteschi, è di nuovo Masolino da Panicale a strappare gli applausi con il suo paesaggio montano (o paesaggio ungherese) del 1435.

Palazzo Branda - Paesaggio montano - Masolino da Panicale

Oltre alla collegiata e al palazzo Branda fece costruire fortificazioni, un ospizio per i poveri, una scuola di musica e grammatica, altre residenze per i suoi parenti, tutto in uno stile coerente che rese Castiglione straordinariamente simile ad una cittadina toscana coeva.

Chiesa di Villa - San Cristoforo - (Scuola di) Jacopino da Tradate

È proprio sulla piazza, esattamente davanti alla splendida loggetta del palazzo cardinalizio, che si trova la più impressionante testimonianza di modernità architettonica del borgo lombardo.
Se il palazzo e la collegiata stupiscono soprattutto con la decorazione pittorica, infatti, la Chiesa di Villa lo fa con forme inusuali che mescolano una evidentissima influenza fiorentina (si ipotizza una consulenza del Brunelleschi stesso) con stilemi della tradizione lombarda.

Chiesa di Villa - Sant'Antonio Abate - (Scuola di) Jacopino da Tradate

E chi può essere l’artefice di questa costruzione?
Bravi. Il solito Masolino da Panicale stavolta veste i panni di architetto coadiuvato da Matteo Raverti, autore delle statue ciclopiche (i santi Cristoforo e Antonio abate) che sorvegliano il grande portone d’ingresso e vigilano sulla piazza dove, mentre visito il paese, stanno allestendo il concerto della banda.

Chiesa di Villa - La Vergine delle Grazie - Galdino da Varese

Stavo quasi per andarmene senza visitare il [MAP] Museo di Arte Plastica, che sospettavo cagata pazzesca, ma ho fatto bene a cambiare idea.
È stata la tirchieria a convincermi. Nel biglietto del Palazzo del Cardinale (3€) è compresa la visita al Museo, e non vorremo mica buttar via un ingresso ormai pagato, no?

La sede è un piccolo palazzo a poche centinaia di metri dalla piazza, appartenente a un ramo cadetto della famiglia Castiglioni. La decorazione delle pareti della parte bassa del grande ambiente centrale, quasi un clone di quella della camera da letto del Cardinale, testimonia il profondo legame tra i due palazzi, ma le sale oggi sono usate per rendere omaggio a un’arte molto più moderna.
Castiglione è sede di un’industria plastica (la Mazzucchelli) che tra il ‘69 e il ‘71 organizzò delle residenze artistiche per sperimentare, assieme ad alcuni tra i più grandi artisti del tempo, le potenzialità della plastica come materiale scultorio.

MAP - Boule sans neige 2

Tante opere sono, onestamente, banalotte.
O meglio, a me che sono abbastanza critico nei confronti di tutta l’arte influenzata dalla Pop Art e dall’idea della riproducibilità meccanica delle opere sembrano banalotte.
Molti pezzi, ad esempio i “guardoni” di Valentina Berardinone, mi paiono più che altro oggetti decorativi, pezzi di design privati della loro utilità pratica (i dialetti lombardo-occidentali sintetizzano questo concetto nella splendida parola ciapapulver).
Al limite mere sperimentazioni sulla tecnica della lavorazione della plastica che non opere compiute, ma questa è una sensazione epidermica e onestamente, senza conoscere bene la vicenda dei singoli artisti e di Polimero Arte, mi sento obbligato a sospendere il giudizio e a dirvi di venire di persona a visitare il museo.

Ci sono opere che, però, riservano piacevolissime sorprese. La “Boule sans Neige” di Man Ray, ad esempio, ma anche il “Ritratto di Max Ernst” di Enrico Baj e soprattutto – a mio personalissimo gusto – il “Cubo Graffito” di Anna Marchi, la cui superficie satinata esplora le possibilità materiche di un materiale che nei primi anni ’70 era ancora tutto sommato nuovo, almeno per il mondo dell’arte.

MAP - Anna Marchi - Cubo Graffito 1

S’è fatto tardi, ormai, e io ho esplorato ogni singolo centimetro visitabile di quella che – secondo una fortunata definizione di quel genio del copywriting di Gabriele D’Annunzio – è “un’isola di Toscana in Lombardia”.

Ma la mia giornata varesotta non è ancora finita.
Per l’ennesima volta so di essere a pochi kilometri dagli scavi archeologici di Golasecca e, oggi, non ho intenzione di farmeli scappare.

Sapete tutti che, a partire dagli anni ‘80, in Provincia di Varese ha iniziato a svilupparsi un movimento politico che, a dispetto dell’essere oggi capitanato da un milanese che si è fatto eleggere a Reggio Calabria, metteva la specificità culturale – persino etnica – del Nord Italia al centro della sua ideologia, arrivando a fare della resistenza celtica all’avanzata dell’impero romano nella Pianura Padana il proprio mito fondativo.
Un movimento, va ricordato, che è stato al governo della Provincia ininterrottamente dal ‘93 al 2014 e poi di nuovo dalla fine del 2018.

Sapendo che sul territorio provinciale sono presenti importantissimi lasciti di una civiltà, quella di Golasecca, pre-romana, autoctona, di probabili origini celtiche, ti aspetteresti una valorizzazione fin eccessiva.
Cartelli ed indicazioni in ogni dove, rievocazioni, musei etnografici con laboratori di ceramica protostorica, corsi di concia del cuoio con l’urina e seminari di cucina celto-lombarda con concorso finale che Masterchef levati…

E invece? E invece un cazzo.
Sarà che far gli scemi con l’elmo con le corna (che i Galli non portavano) e con il Sole delle Alpi (che si trova pure sugli stipiti delle porte di Ischia) è comodo, mentre una valorizzazione culturale di quel genere richiede studio, fatica e lavoro. E soldi, ovviamente.

Insomma, quando arrivo a Golasecca faccio una bella fatica a trovare l’area archeologica del Monsorino.

In verità ben due pedoni mi danno le indicazioni corrette: “dal centro del paese vai giù per la discesa, segui la strada principale e sotto il ponte dell’autostrada, vicino alla spiaggia del Ticino, troverai le indicazioni.”
Ecco, è quel “troverai le indicazioni” ad essere fallace, perché arrivando da Golasecca il cartello che indica la necropoli è completamente stinto, illeggibile.

Il cartello che (non) indica la necropoli del Monsorino

Solo al terzo tentativo, arrivando dalla direzione opposta, riesco a capire dove devo andare.
Parcheggio la moto sotto il ponte, in mezzo alle auto dei bagnanti, tra misteriose galline semiselvatiche, e mi incammino nel bosco su per il sentiero.
Superata la radura (anche qui nessuna indicazione, ma proseguite dritti) eccomi, finalmente, alla necropoli del Monsorino, il primo sito golasecchiano mai scoperto.

Necropoli del Monsorino - 3

La civiltà di Golasecca si estese, dal IX al IV secolo avanti Cristo, tra il corso del Sesia e quello del Serio, con il Ticino a fare da asse portante.
Presumibilmente di origine celtica, i Golasecchiani erano principalmente commercianti che operavano sulle rotte del sale fungendo da cardine tra gli Etruschi e le popolazioni del transalpine.
Da bravi commercianti, i Golasecchiani diedero un importante stimolo allo sviluppo “urbano” della zona fondando, a quanto pare, i primi nuclei di Milano e di Como.

E noi indichiamo i loro resti con un cartello stinto…

Qui al Monsorino sono stati ritrovate, a partire dall’800 svariate sepolture. I manufatti (urne cinerarie di vario tipo e corredi funebri) oggi sono conservati nei musei di Sesto Calende e Golasecca (entrambi fanno orari da motorizzazione civile, scordatevi di riuscire a visitarli nel finesettimana), mentre qui nel bosco rimangono visibili i cromlech che delimitavano le aree funerarie.

Necropoli del Monsorino - 4

Io lo so che alla parola cromlech avete tutti pensato a Stonehenge. Ecco, no. Qui si parla di pietre alte al massimo trenta, quaranta centimetri.

Una delle cose che mi sorprende sempre visitando i siti archeologici è il come i primi scopritori (l’abate Giani qui, Vittorino Cazzetta sul Mondeval e sul Monte Pelmo) siano stati in grado di distinguere l’anomalia in un paesaggio assolutamente normale.

Necropoli del Monsorino - 1

Passando di qui con occhio distratto, o semplicemente cercando altro (castagne, funghi) vi sareste forse resi conto dell’abbondanza di pietre che affiorano da questo prato ma, onestamente, avreste saputo riconoscere il pattern circolare dei cromlech, le linee parallele delle allee?

Adottando questo punto di vista converrete con me che questi piccoli cromlech valgono quasi più dei megaliti di Stonehenge. O no?

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano, Milano Romana

L’IMPERO COLPISCE ANCORA: PANEM ET CIRCENSEM

Parlare del Teatro e dell’Anfiteatro di Milano significa, prima di tutto, parlare di Alda Levi.

Tra le prime donne ad avere un ruolo nella Sovraintendenza dei Beni Culturali di cui fu, fra il 1925 ed il 1938, responsabile unica per il territorio lombardo e al suo lavoro si devono scoperte e riconoscimenti fondamentali soprattutto per quanto riguarda il passato romano della regione.
Nonostante un lavoro di primissimo livello – su reperti di quel glorioso passato imperiale che tanto piaceva al regime – quando LVI nel 1938 vara le leggi razziali è costretta a lasciare il lavoro.

Trascorre gli anni della guerra a Roma, sotto costante minaccia, vuoi perchè ebrea, vuoi perchè sposata con l’archeologo Vittorio Spinazzola, responsabile di fondamentali scoperte a Pompei ma cacciato dagli scavi nel 1923 perchè critico nei confronti di Mussolini.

Prima che LVI e la sua banda di criminali e lacchè la cacciassero, Alda Levi fu protagonista di alcuni straordinari ritrovamenti a Milano, tra cui nel 1929, durante la costruzione del palazzo della Borsa, i resti delle fondamenta del Teatro Romano e poi, nel 1931, i resti dell’anfiteatro.
Reintegrata nel 1945, Alda Levi muore nel 1950 a Roma, senza avere la possibilità di vedere musealizzate le due grandi scoperte milanesi che saranno aperte alla cittadinanza quasi mezzo secolo più tardi.

Muri radiali delle fondazioni

La storia del Museo Sensibile del Teatro Romano è quasi altrettanto interessante.
Sebbene solo nel ‘29, come sappiamo, sarebbe stato riconosciuto il teatro, sin dalla costruzione del proprio Palazzo, nel 1880, la famiglia Turati si rese conto di aver acquistato assieme al terreno una vera e propria miniera di statuaria romana.

Andrea Preti, il funzionario della Camera di Commercio che mi guida nel Museo, mi spiega che proprio in questi primi anni gran parte dei reperti più belli fu utilizzata dai Turati come moneta di scambio.

– Erano invitati a un matrimonio importante? – mi dice – Portavano in dono una bella statua. Dovevano ingraziarsi un cliente particolarmente facoltoso? Gli regalavano qualche moneta di età imperiale…

Insomma, dove non era arrivato il Barbarossa arrivò un approccio abbastanza libero alla conservazione del patrimonio.

Il Barbarossa, sì, che non può mai mancare nelle vicende milanesi.

Il teatro è stato probabilmente uno degli edifici più longevi della romanità milanese: eretto in età augustea, cessati gli spettacoli fu luogo di assemblea del Comune rimanendo il attività per un millennio buono.
Ma nel dodicesimo secolo Milano, nell’ambito delle lotte di potere che dilaniavano l’Italia settentrionale e Roma, attaccò e distrusse Lodi, fedelissima alleata dell imperatore.
Che al Barbarossa fregasse qualcosa di Lodi, sapendo che la raspadüra [https://mangiaregione.it/raspadura-lodigiana/] non l’avevano ancora inventata, lo credo poco. Ma l’orgoglio imperiale è quello che è e Federico non poteva lasciare impunita la provocazione.
E così nel 1162, dopo un assedio estenuante, Milano dovete aprire le sue porte alle truppe del Barbarossa che avevano l’ordine di radere al suolo La città non lasciando pietra su pietra. Vuoi per la particolare imponenza dell’edificio, vuoi perché ne conosceva l’uso come stava assembleare, Federico chiesa di dedicare particolare attenzione alla distruzione dell’Antico teatro di cui ogni traccia fu cancellata per oltre sette secoli.

Muri radiali delle fondamenta

Tra la distruzione del 1163 e i primi ritrovamenti del 1880, la zona ospitò chiese (San Vittore al Teatro), botteghe e case di umile abitazione, edifici che riutilizzarono gran parte delle superstiti pietre dell’alzato.
Ciò che vediamo oggi, in realtà, è ciò che i romani non potevano vedere: le fondamenta della cavea e di parte del grande muro scenico.

Il forno (panem et circensem)

L’allestimento, tuttavia, è pensato per riportare alla luce i fasti del teatro imperiale, portando i visitatori ad immergersi nella storia con tutti i sensi.
Questo è il significato di Museo Sensibile: un allestimento che coinvolge la vista (grazie alla splendida illuminazione delle rovine), l’udito (grazie alle guide, ovviamente, ma anche alle registrazioni di grandi del teatro che cercano di ricostruire la recitazione romana) e persino l’olfatto (ma qui lascio che siate voi a farvi condurre tra gli odori di umanità e i profumi di rosa e zafferano).

Muri delle fondazioni e passerella

Certo, io ho avuto la fortuna di essere da solo a visitare il teatro e ho potuto godermi in tutta tranquillità il racconto di Preti – che del museo è stato anche artefice.

Dopo una sala introduttiva che illustra nel dettaglio le tecniche costruttive romane, si entra nel vero e proprio museo dove una passerella in vetro e metallo consente di sorvolare i resti dell’edificio illuminati da luci drammatiche che aiutano ad immergersi nell’esperienza nascondendo il prosaico sfondo costituito dalle pareti dello scantinato.

A meno che non abbiate fatto le elementari negli anni 2000, è probabile che non abbiate mai saputo nulla di questo museo, che è tra i meglio nascosti di Milano.
Dalla sua apertura fino a pochi anni fa l’apertura del museo era garantita dalle guide dell’Università Cattolica ma, in tempi di spending review, sono stati radicalmente ridotti i fondi e ora il museo è visitabile solamente su prenotazione grazie al lavoro volontario di alcuni funzionari della Camera di Commercio (contattateli qui, è un’esperienza da non perdere).
In questa situazione, è chiaro, il museo ha orari limitati e non viene più di tanto pubblicizzato ma i volontari sono comunque in grado di garantire l’accesso al sito a centinaia di classi delle scuole elementari e medie delle province di Milano, Lodi e Monza e Brianza.

Colonne

Accanto a Palazzo Turati, nella sede della Borsa Valori, sono conservati ulteriori reperti del teatro,forse i più interessanti dal momneto che vi sono anche resti delle decorazioni musive del pavimento, ma non è possibile accedervi liberamente quindi, a malincuore, lasciamoci alle spalle Piazza Affari e andiamo verso Sud.

Poco più di un kilometro, che vale la pena di percorrere a piedi attraverso il suggestivo quartiere delle Cinque Vie. Questa è la distanza che separa il museo del Teatro dall’Antiquarium Alda Levi – Parco dell’Anfiteatro Romano. Poco più di un kilometro, in senso geografico, ma qualche secolo dal punto di vista museografico.

Ho lavorato in Corso Italia dal 2011 al 2015. Per arrivare in ufficio, quando il clima sconsigliava l’uso di Aiko, scendevo dal tram in Piazza della Resistenza Partigiana e percorrevo via Molino delle Armi a piedi.
Spesso mi capitava di buttare un occhio all’edificio sede dell’antiquarium (uno dei tanti ex conventi di cui è pieno il centro di Milano), perchè è anche sede di un teatro per l’infanzia cui probabilmente debbo il mio amore per la scena.

Vi mentirei se vi dicessi di essermi mai accorto della piccola targa che annuncia la presenza del museo e dei reperti. Solo le ricerche per il Motografo mi hanno portato, finalmente, a capire dove fosse l’ingresso e quali gli orari.

Mura radiali

E così un sabato mattina alle 12.30 mi presento sulla porta, la varco e mi guardo in giro spaesato.
Indicazioni? Figuriamoci, saremo mica dei Tedeschi che han bisogno le indicazioni. Noi Italiani preferiamo improvvisare. E, in effetti, improvvisando trovo il passaggio che conduce al parco e a ciò che resta dell’enorme arena milanese.

Mura radiali

Enorme,sì. Gli studiosi ritengono che il nostro fosse tra gli anfiteatri più grandi dell’impero, secondo solo al Colosseo e a quello di Capua.

Fa impressione pensare che l’area dell’anfiteatro, che oggi è considerata molto centrale, si trovasse al di là delle mura, fuori dall’abitato, appena a sud del Palazzo Imperiale.

I resti portati alla luce sono musealizzati in un parco che sarebbe tra i più belli della zona, se solo fosse più accessibile. I raggi delle fondamenta dell’ellisse dell’arena, sebbene recintati per proteggerli, dialogano con l’andamento dolcemente ondulato del terreno e con le piante – in fiore in questa mattinata di primavera – creando un ambiente sereno e rilassante.
Scatto qualche foto, leggo i cartelli esplicativi e cerco di ricostruire – in vano – nella mia mente l’effetto che poteva fare la mole dello stadio nella campagna milanese.

Parco dell'anfiteatro e chiesa dei Rumeni

Fiorellini

Torno nel chiostro dell’ex convento e trovo finalmente l’ingresso dell’antiquarium con i suoii due custodi.
Non mi piace attaccare il lavoro delle persone, che va sempre rispettato, quindi mi limiterò a dire che la sensazione era quella di essermi seduto al tavolo di un tipico ristorante ligure.
Chissenefrega, entro e inizio la mia visita.
L’antiquarium mi risulta aperto nel 2004 ma, in tutta onestà, l’allestimento sembra fatto secondo una logica di metà del ‘900. Accumuli di reperti in anonime teche di vetro e cartellini esplicativi poco o nulla esaustivi.
La collezione è piccola, ma il suo pezzo forte, la stele funeraria del gladiatore Urbico, vale da sola la visita (che per altro è gratuita).

Stele del gladiatore Urbico

A Urbico, inseguitore di prima posizione, di origine fiorentino, che combattè tredici volte, visse ventidue anni; Olimpia (sua) figlia che lasciò a cinque mesi, e la figlia Fortune(n)se, e la moglie Lauricia (dedicano), al marito che ha ben meritato, con cui visse sette anni. Ti avverto, chiunque tu sia che uccidi che hai vinto. I suoi tifosi terranno viva la sua memoria

Stele del gladiatore Urbico

Da un lato mi communovo – con quei 2000 anni di ritardo – per la famiglia del povero Urbico, dall’altro trovo affascinante che anche i gladiatori, gli schiavi come era probabilmente Urbico, avessero degli appassionati tifosi che ne terranno viva la memoria, proprio come i nostri pugili, motociclisti o piloti di F1.

Ma mentre penso tutto questo una voce alle mie spalle:

– Stiamo chiudendo!

Guardo l’ora: le 13.40. Il museo chiuderebbe alle 14.00, ma va bè…

– Sì, faccio una foto e ci sono.
– Sì, ma in fretta, per favore, che dobbiamo chiudere.

Odio che mi si metta ansia, ma capisco che il rispetto degli orari sia importante…
Mi affretto, scatto alla come viene ed esco.
Passo alla e appena varco la soglia la sento chiudersi alle mie spalle con tanto di quattro mandate di serratura, catenaccio e paletto.
Peccato che siano le 13.45, un abbondante quarto d’ora di anticipo sugli orari di chiusura del museo.

Il paragone tra i due musei non potrebbe essere più stridente.
Da utente posso dire che quasi sempre mi sono trovato meglio là dove a gestire l’accoglienza e le visite sono i volontari, ma da studioso non mi sfugge il problema.
Il volontariato è una nobilissima attività che troppo spesso funge da scusa per le istituzioni per non pagare i professionisti (le guide) o per giustificare chiusure inaspettate, orari di apertura improbabili o servizi ridotti all’osso.
E però, al tempo stesso, non capisco come si possa pensare di dotare un museo – un museo che dovrebbe essere un fiore all’occhiello di una città – di personale così vistosamente disinteressato (e per giunta scortese). Ci deve, mi ripeto, essere una virtuosa via di mezzo. Deve esistere il modo di selezionare del personale regolarmente assunto e pagato che sappia, allo stesso tempo, sviluppare un amore ed un legame con la propria istituzione, con il monumento, il museo, l’opera che protegge e divulga.

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Tutte le fotografie del Teatro Romano appaiono con l’autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali – Sovraintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Milano e non possono essere ulteriormente riprodotte.
Per tutte le altre foto vale come al solito la CC attribuzione, non commerciale, no opere derivate.

Lombardia, pavia, Via Francigena

DA TROMELLO AL CONFINE

XLII Tremel. XLIII Vercel

La cinquantatreesima tappa della via Francigena inizia ancora una volta lungo l’odierna provinciale 596 dei Cairoli e attraversa un paesaggio tutto sommato monotono, del tutto identico a quello della tappa precedente.
Lasciata Tromello la strada prosegue dritta in direzione Nord-Ovest attraversando campi e risaie apparentemente deserti.
Uniche forme di vita, in questa domenica pomeriggio, pochi anziani in bicicletta che spuntano da qualche piccola stradina rurale seminascosta tra i cespugli.
Poco prima della deviazione per Remondò, sulla sinistra, si nota chiaramente l’enorme palla bianca che copre il radar della 112° Squadriglia Radar dell’aeronautica.
Facciamo ancora pochi kilometri tra i campi, superiamo l’ospedale di Mortara e, alla grande rotonda, pieghiamo risolutamente verso sud. Basta fare un centinaio di metri per vedere alla nostra sinistra, seminascosta da un filare di pioppi cipressini, la sagoma del campanile di Sant’Albino.

mortara - sant albino silohuette

Fondata probabilmente nel V secolo, l’abbazia sorge a pochi passi dai campi di battaglia che videro fronteggiarsi i Longobardi di Desiderio e i Franchi di Carlo Magno.
Narra la leggenda che Amico e Amelio, scudieri di Carlo Magno e grandi amici, morirono sul campo di Mortara e furono sepolti l’uno in Sant’Albino e l’altro nella vicina chiesa – oggi distrutta – di San Pietro.
Il giorno dopo le esequie, però, il sepolcro di Amelio fu trovato vuoto ed i resti di entrambi furono trovati nella tomba di Amico in Sant’Albino, uniti in morte come furono uniti nella vita.

mortara - sant albino

La chiesa ha subito lunghissimi anni di incuria ed abbandono che hanno colpito duramente soprattutto l’interno.
Sebbene i pochi affreschi rimasti siano stati restaurati di recente, ciò che mi colpisce e mi affascina dell’abbazia è soprattutto l’esterno. La città di Mortara è proprio qui davanti. Basta attraversare lo stradone e si entra in un ambiente assolutamente urbano, ma Sant’Albino sembra congelata in un tempo in cui la città quasi non esisteva e qui era tutta campagna.

Dalle piccole panchine che fronteggiano la chiesa quasi non si sente il rumore del traffico e ci si può persino dimenticare di essere al bordo di una provinciale.
Sant’Albino – per quelli di voi che vogliono ripercorrere a piedi i passi di Sigerico – ospita i pellegrini nei pochi locali dell’abbazia sopravvissuti ai secoli ed è considerata il punto di partenza del tratto della Via Francigena che da Mortara porta a Tromello.

Lasciata la piccola abbazia entro in città e posteggio la moto nella piccola Piazza Silvabella.

mortara - campanile di san lorenzo

Vorrei dirvi che mi sono fermato qui perchè attratto dalla sagoma del campanile di San Lorenzo che spunta dietro i palazzi, ma la realtà è un’altra. Appena prima della piazza la mia attenzione è stata catalizzata da una piccola salumeria in cui mi sono fiondato per comprare il meraviglioso salame d’oca di Mortara e dove il gestore mi spiega che il modo migliore di mangiarlo è affettarlo bello caldo, appena tolto dalla pentola, ed appoggiare le fettone su una crema di ceci bella densa.
Dategli retta, lui sa quello che dice!

Terminato lo shopping tigliceridico inizio davvero a guardarmi intorno.

mortara - san lorenzo

San Lorenzo, o meglio la Collegiata Basilica di San Lorenzo, è la chiesa principale di Mortara ed anche il principale motivo – a parte il salame – che mi ha portato qui.
La chiesa si presenta in forme di purissimo gotico lombardo, con una facciata a capanna decorata con lunette e fregi di cotto.

mortara - decori di san lorenzo

La data sull’orologio del campanile, gli affreschi in facciata di Nando Bialetti e le vetrate policrome della ditta Mossmeyer sono le uniche tracce esterne dei restauri che la chiesa ha subito all’inizio del secolo scorso ma, sebbene con uno stile che di gotico ha pochissimo, riescono ad armonizzarsi perfettamente con la rigorosa struttura originaria senza sembrare un’aggiunta posticcia.

L’interno è fresco e appena rischiarato dalla luce che filtra dalle vetrate colorate. L’odore tipico, vagamente muffoso, dei mattoni pervade i miei sensi e mi invita, insieme ai riflessi sul legno lucido delle panche, a godermi l’atmosfera raccolta ed il silenzio; a sostare un attimo riposando i sensi dopo un pomeriggio di guida anzichè cercare il dettaglio del singolo affresco o di ogni statua.

mortara - interno di san lorenzo 2

L’interno è, comunque, piuttosto fedele alle forme originali quattrocentesche. Le aggiunte successive non hanno trasformato l’ariosa aula gotica un opprimente spazio barocco ma – anche nelle cappelle laterali seicentesche – hanno saputo rispettare le caratteristiche di sobrietà e rigore del luogo.

mortara - vetrata di san lorenzo

Il Comune di Mortara ha diritto al titolo di città sin da quando, nel 1707, venne annessa al Regno di Sardegna. Ciononostante, con i suoi poco più di 15.000 abitanti, Mortara è un paesone che si gira tranquillamente a piedi.
Lascio la Basilica, passo davanti al Comune e inizio a muovermi per le piccole strade cittadine su cui affacciano edifici tipici di queste parti: basse case di due o tre piani, intonacate di bianco, di crema o di giallino Maria Teresa.
Lunghe file di finestre e portoni ad arco, apparentemente tutti uguali, che celano spesso cortili di forma irregolare, un tempo forse adibiti ad aie.

Per raggiungere il Santuario di Sant’Antonio da Padova ci metto circa mezzora ma, se avessi seguito una mappa anziche vagare a naso in su come un flaneur della bassa, mi sarebbero bastati cinque minuti.
Quando arrivo il santuario è ancora chiuso. Pochi minuti dopo la campana – la più grande di Mortara – attacca a suonare e la gente si accalca per entrare a messa. Io, come sapete, non amo fare il turista durante le funzioni, quindi aspetto che siano tutti entrati per fotografare la facciata.

mortara - sant antonio da padova

Se il decoro geometrico del portale vi pare inusuale per un edificio gotico, c’è un ottimo motivo: l’edificio risale al 1927, anche se è costruito in un neogotico talmente rigoroso da trarre in inganno.

Sono pochi i kilometri che separano il centro di Mortara dalla piccola frazione di Madonna del Campo.
Quattro case, un fosso, un ponticello e, circondata da alberi di pesco, una piccola ed elegante chiesetta del XV secolo.

madonna del campo

madonna del campo - portone

La giornata di cammino di Sigerico il Serio si concluderebbe a Vercelli ma per questa volta la capitale del riso dovrà attendere.
Vi avevo promesso di seguire l’itinerario dell’arcivescovo inglese in Lombardia, dal Po sino al Sesia, ricordate?
Ed è per questo che, mi fermo qui sulla sponda del fiume.

Lombardia, pavia, Via Francigena

DA PAVIA A TROMELLO

XLI Pamphica. XLII Tremel

Nelle prime tappe lombarde, è la provinciale Codognese a ricalcare il percorso della via Francigena, ma una volta superata* Pavia questo onore spetta alla provinciale 596 dei Cairoli, che da Pavia porta a Vercelli attraversando la Lomellina.

Per i camminatori la buona notizia è che la ferrovia Pavia-Vercelli – una clamorosa tradotta a binario unico – tocca più o meno tutte le tappe del nostro tragitto.

La strada mi conduce ancora una volta sul ponte coperto – quello amato da Einstein e ricostruito dopo la guerra – per poi piegare ad Ovest, lungo via XXV Aprile, seguendo l’andamento sinuoso del Ticino.
Lasciata alle spalle la città si apre davanti ai miei occhi l’orizzonte della Lomellina. Spietatamente piatto, direbbe un cantautore.

È un paesaggio che in molti trovano noioso e poco stimolante ma che mi emoziona profondamente. Nelle gelide mattine d’autunno, con la nebbia che sale dai campi e i pioppi spogli allineati in filari spettrali come nelle giornate estive in cui il sole picchia con una cattiveria inaspettata, l’inesorabile piattezza di questo orizzonte per me non è una prigione angosciante – come molti la descrivono, ma un invito a muovemi, ad andare liberamente.

Tutti i paesi che ho toccato sin ora fanno della Via Francigena il cardine del loro – povero – marketing turistico.
Nulla di eclatante. Qualche cartello, la risistemazione di un sentiero, poco di più. Ma a Casoni, frazione di Carbonara Ticino, è un’altra la leva utilizzata per attrarre i turisti.

casoni

Non gli si può dare torto, onestamente. Da qui sino a Garlasco – praticamente per tutta la quarantaduesima tappa del viaggio di Sigerico, sono davvero poche le mete che possono attirare l’attenzione del viaggiatore.

Anche osservando le mappe e le immagini dal satellite appare chiaro che questo territorio è fatto di campi – risaie soprattutto – e di fossi, con piccoli paesi e cascine isolate.
Nulla di quello che scorre davanti ai miei occhi esisterebbe se l’uomo non avesse irregimentato le acque, spianato le risaie ed arato i campi; ma l’occhio di chi passa da queste parti scivola placido sul susseguirsi di campi e filari dove non passa nessuno godendosi una solitudine che per chi cammina può persino sembrare definitiva.
Insomma, mentre viaggio sull’arginale di Carbonara ho la sensazione di essere l’ultimo uomo sulla terra.

Paesi e risaie sono poco più che un’immagine sfocata mentre percorro la provinciale.
È Garlasco l’unica vera meta di oggi.
Garlasco ha una fama sinistra.
Basta nominare questa graziosa cittadina della Lomellina perchè un brivido corra lungo la schiena delle persone per bene. Fama, sia chiaro, immeritata. Gigi D’Agostino non è certo il mio musicista preferito, ma nonostante si vesta come L. Ron Hubbard lui non ha mai fatto del male a nessuno…

0002 - Santa Maria Assunta

Piazza della Republica è la piazza principale di Garlasco, ma è presa d’assalto dalle auto posteggiate, che ne riempiono ogni anfratto.
Da qualsiasi angolazione la si inquadri, la Parrocchiale di Santa Maria Assunta è sempre impallata da decine di mezzi parcheggiati ovunque.

La chiesa, settecentesca, è un ottimo esempio delle chiese classiciste che si possono ammirare in tutta la zona. È uno stile che a me piace poco, lo sapete, ed è per questo che è raro che ve ne parli, ma devo ammettere che Santa Maria Assunta ha una sua grazia. Dietro la facciata novecentesca, le tre navate riescono a trovare un equilibrio tra pompa ed eleganza senza cadere, come spesso capita, nel kitsch.

0003 - Affreschi di Santa Maria Assunta

Poco distante dalla Parrocchiale sorge il Castello di Garlasco. O meglio, quel poco che ne rimane.

0001 - Castello di Garlasco

Importantissimo nel ‘400, il castello è stato saccheggiato più volte e praticamente distrutto già nel ‘500. Oggi il torrione dà accesso ad una piccolissima corte, lunga e stretta, su cui si aprono i portoni di abitazioni e di un ambiente abbandonato. Mentre mi guardo intorno non c’è traccia di presenza umana, salvo la musica che proviene da una radio che non riesco a localizzare e che dona un’atmosfera inquietante e affascinante al tempo stesso.

0003 - Castello di Garlasco

0005 - Castello di Garlasco

Inquietante, onestamente, è anche la mia prossima meta: il Santuario della Madonna della Bozzola.
Ricordate che qualche tempo fa proponevo una legge che mi permettesse di far brillare gli elementi di disturbo estetico?
Ecco, se non vedete una foto della facciata tardo ottocentesca del Santuario è perché questa legge non è ancora stata approvata e, quindi, non mi sono potuto liberare delle auto addossate alla cancellata e del chiosco delle caramelle.

Sull’interno non mi esprimo. Da ateo ho rispetto della devozione popolare e delle forme in cui si manifesta. Tuttavia le cappelle, che sono il vero cuore del santuario, sembrano progettate dall’arredatore del Motel K più che da un pio artista votato all’innalzamento delle anime.

Madonna della Bozzola

L’avrete capito, questa non è la più interessante delle tappe del nostro percorso; non è un caso che la Guida Verde non dedichi una riga a nessuno dei paesi che abbiamo toccato. Io ho voluto rispettare alla lettera l’itinerario di Sigerico, ma a voi consiglio di unire questa tappa alla prossima arrivando sino a Mortara.

Io, però, mi fermo a Tromello. Che non avrà grandi attrazioni turistiche ma, in compenso, è la patria di Francesco Negri, innovatore della microfotografia e, soprattutto, inventore del teleobiettivo cui ogni Motografo che si rispetti vorrà portare un piccolo omaggio.

*= Ricordatevi che io sto ricalcando l’itinerario descritto dall’Arcivescovo Sigerico il Serio da Roma a Canterbury. Il percorso dell’odierno pellegrinaggio verso Roma è, ovviamente, in senso opposto.

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano

IL CASTELLO SFORZESCO ED IL PARCO SEMPIONE

Il Palazzo Imperiale, il Circo, il Teatro Romano.
Il Coperto dei Figini, la Basilica di San Giovanni in Conca, la cerchia dei Navigli.
E poi ancora il convento di Garegnano e il Lazzaretto, le Terme antiche.

Sono decine gli edifici civili, religiosi e monumentali che Milano ha perso nei secoli sotto i colpi delle guerre o che ha sacrificato sull’altare della trasformazione urbana e della tensione al progresso.

Il Castello Sforzesco ha rischiato di dover essere incluso in questo elenco.

Originariamente chiamato Castello di Porta Giovia, fu voluto attorno alla metà del ‘300 da Galeazzo Visconti ed è stato spesso al centro di progetti di demolizione.
Già sotto la Repubblica Ambrosiana (1447) fu pesantemente danneggiato e solo l’insediamento del nuovo Duca Francesco Sforza potè la fortezza, trasformandola in un palazzo nobiliare.

Dopo un breve periodo di apertura alla città – simboleggiato da grandi bifore aperte nei muri esterni – il castello torna, sotto gli Sforza prima e poi sotto gli Spagnoli e gli Austriaci, a svolgere l’originale funzione di fortezza e poi di carcere e di caserma delle truppe occupanti, circondandosi sempre più di mura, torri e fossati inespugnabili e suscitando per lunghi secoli nel cuore dei Milanesi sentimenti di timore e di odio.

resti della ghirlanda

Già dopo l’assedio del 1796 c’è chi vuol radere al suolo l’ultimo avanzo dell’antica tirannide, racconta Gian Guido Belloni nel suo libro del ‘66 dedicato al castello, ma Napoleone ordina che sia rimesso in sesto in modo da poter sostenere l’eventuale reazione degli Asburgici.

Allontanato il rischio austriaco, però, è il gusto francesizzante della Repubblica Cisalpina – e dello stesso Napoleone ormai Re d’Italia – a far tremare il Castello.
Tra chi vuole trasformare la veccchia fortezza in un palazzo neoclassico con colonne doriche, rilievi e fregi e chi propone di demolire tutto, sono decine i progetti che interessano l’area.
Lo stesso Imperatore è indeciso. Salvare solo la Corte Ducale? Procedere ad una ristrutturazione radicale?

Alla fine i francesi combinarono relativamente poco.
Le fortificazioni a stella, risalenti al periodo spagnolo, cadono proprio in questo periodo (ne rimane solo qualche frammento nei pressi della porta di Santo Spirito), ma il resto della fortezza viene salvato. Più rilevante l’intervento sul resto del quartiere, con la realizzazione del Foro Bonaparte, dell’Arena Civica e dell’Arco della Pace in fondo a quella che, allora, era ancora una piazza d’armi.

rivellino di santo spirito

A Milano tornano gli Austriaci e, di nuovo, è il castello ad ospitare la guarnigione di occupazione.
Proprio con i cannoni che muniscono la fortezza il Maresciallo Josef Radetsky – quel porco – farà bombardare la città in rivolta durante le Cinque Giornate del ‘48.

E allora, scacciati gli occupanti, di nuovo prende piede l’idea di non lasciar pietra su pietra, caldeggiata da un Salvator Ligresti ottocentesco che si frega le mani al pensiero del bel quartierino di palazzi lussuosi che potrà tirare su in pieno centro.

torre sud dal rivellino di santo spirito

E invece no!
Grazie al provvido intervento di un gruppo di cittadini sensibili il nuovo governo decide di conservare il castello e di restaurarlo.
I lavori vengono affidati a Luca Beltrami che procede ad un intervento radicale.
Beltrami però deve scegliere a quale periodo storico riportare il castello.

rivellino di santo spirito

Il ‘300 Visconteo? Troppo sobrio. Va bene la medietas meneghina, ma non esageriamo!
Il ‘600 spagnolo con le sue grandiose fortificazioni a stella? A parte il lavoro improbo, ma ti pare che abbiamo cacciato gli Austriaci e ora celebriamo gli Spagnoli? Eddai, su…

E allora la scelta dovette per forza cadere sul periodo degli Sforza.

Beltrami evidentemente era un uomo coscenzioso al limite dell’ossessività.
Non gli bastava ridare lustro all’esistente, riaprendo i finestroni sul muro di cinta esterno e riportando alla luce gli affreschi e i decori delle magnifiche sale interne; volle anche ricostruire dalle fondamenta l’imponente torre centrale edificata dal Filarete a metà del ‘400 e crollata nel ‘500 a seguito dell’esplosione della santabarbara in essa contenuta.

Facciata sud ovest

Per progettare la nuova torre il Nostro non andò di fantasia nè si basò solo su esempi costruittivi coevi, ma volle andare a fondo cercando fonti di prima mano.
C’era una Madonna con Bambino, a Chiaravalle, in cui il castello si stagliava sullo sfondo; Beltrami partì da quel dipinto e da un antico affresco ritrovato nella Cascina Pozzobonelli per immaginare un manufatto quanto più possibile fedele alle forme quattrocentesche.

filarete

Certo, il bassorilievo di Umberto Primo stona un po’, ma non si poteva mica scontentare il committente, no?

La torre oggi è il punto di fuga del lunghissimo asse prospettico – parigino, per così dire – che parte da un angolo di piazza del Duomo e, superato il Castello, prosegue attraverso l’Arco della Pace e Corso Sempione e da lì, idealmente, verso la Francia napoleonica.

Varcato il portone che si apre nella torre, si accede al grande Cortile delle Armi.
Uno spazio enorme, rettangolare, ingentilito da aiuole di prato che in primavera diventano bianche di Margherite.

piazza d'armi

Nella Piazza d’armi hanno sede la raccolta delle stampe Bertarelli e, soprattutto, il nuovo Museo della Pietà Rondanini.

Io non ho ancora visitato il nuovo allestimento – creato in occasione dell’Expo – ma in compenso ho passato interi pomeriggi seduto nella Sala degli Scarlioni: una nicchia di pietra ed ulivo pensata dallo studio BBPR: in cui la splendida scultura risaltava in tutta la sua grandezza.

Già mi immagino il noto critico Marchese Piergiovanni Perfettini-Menafava alzare il suo ditino giudicante per lamentarsi del fatto che la Pietà Rondanini è incompiuta, non rifinita, che la Madonna è appena abbozzata, che ci sono pezzi spurii di anatomia che fanno capolino qua e là…
Eppure la potenza della scultura è anche nel suo essere incompiuta. Un’incopiutezza che sottolinea ed accentua la sofferenza del Cristo e di Maria. Una rappresentazione plastica del dolore resa vivissima dai segni del mazzuolo e dello scalpello, dalla superficie scabra del marmo.

Già che avete acquistato il biglietto per la Pietà, approfittatene per fare un giro in tutti i musei del Castello. Non tanto per le collezioni quanto per le sale maestose in cui spiccano interventi, tra gli altri, dell’onnipresente Leonardo.

torre di bona

Il Cortile delle Armi è chiuso in fondo da un fossato e da un muraglione con due aperture: da quella più a destra si raggiunge la deliziosa Corte Ducale: un ombroso cortiletto rinascimentale ornato da una vasca d’acqua fresca sulla cui sponda è piacevole sedersi a riposare e leggere nei pomeriggi estivi.

corte ducale e rocchetta

corte ducale

Dal passaggio di sinistra, invece, si accede alla Rocchetta: la parte più antica e fortificata del castello. Qui si rifugiavano i duchi in caso di assedio e qui veniva conservato il tesoro della casata.

rocchetta e torre di bona

Proprio qui la Duchessa Bona di Savoia (bel nome, comunque) stabiliì la sua residenza dopo l’omicidio del marito Galeazzo Maria Sforza per proteggere se stessa ed il figlio dalle mire del cognato Ludovico il Moro.

Tanto la Corte, sede anche del Museo Egizio di Milano è accogliente per il visitatore, tanto la Rocchetta è quasi repulsiva.

decoro dei portici della rocchetta

Nonostante il portico di archi a tutto sesto sia finemente decorato e le pareti interne mostrino ancora tracce di affreschi, il cortile ha un aspetto dimesso e quasi frusto e la gran parte dei turisti che lo attraversano passa senza quasi accorgersi della bellezza della struttura architettonica trecentesca ben conservata nonostante qualche inserimento abbastanza arbitrario del Beltrami.

biscione sulla porta nord est

Uscendo dal Castello da nord-ovest si arriva sull’ampia e polverosa Piazza del Cannone: una sorta di balcone affacciato sul grande parco e sull’Arco della Pace in fondo.

arco della pace e teatro continuo

Alla nostra sinistra il Palazzo dell’Arte – sede della Triennale, di uno dei teatri più belli di Milano e dei Bagni Misteriosi di De Chirico – e la Torre Branca: 109 metri di traliccio d’acciaio progettati da Giò Ponti come incredibile belvedere sulla città.

bagni misteriosi

torre branca

A destra, nascoste tra gli alberi del parco, l’Arena Civica e la biblioteca del parco, edificata su un’altura artificiale in finta roccia (il Monte Tordo).

Il progetto del parco, un tipico giardino all’inglese, è pensato per dialogare con il castello in modo onestamente antistorico. L’impostazione romantica dell’area, infatti, risponde ad un esigenza scenica, entrando in relazione con l’idea neo-medioevale di castello, fatta di torri, merli e fantasmi, più che con l’impianto rinascimentale del castello stesso, ma l’effetto rimane piacevole.

Il tracciato circonvoluto dei sentieri del parco, inoltre, contrasta volutamente con l’asse prospettico napoleonico Cordusio – Castello – Arco della Pace – Sempione di cui abbiamo parlato, spezzandone la rigidità con un inserto naturalistico riposante.

Con la prospettiva, però, gioca anche l’installazione, recentemente ricostruita, del Teatro Continuo di Alberto Burri: un palcoscenico in cemento, permanente, finacheggiato da quinte che incorniciano i due monumenti – il Castello e l’arco – rendendoli fondali permanenti di una rappresentazione continua, appunto, e spontanea.

teatro continuo e castello

Subito accanto l’Accumulazione Musicale di Arman, meglio conosciuta come l’Anfiteatro, storico luogo di ritrovo di percussionisti più o meno bravi.

Tra pratoni soleggiati, panchine in ombra, campi da basket e percorsi vita il Parco Sempione è la degna conclusione di qualsiasi giro nel centro di Milano, ma prima di lasciarvi qui a poltrire vorrei mostrarvi una chicca nascosta tra questi alberi.

lago e castello

Proprio sopra il laghetto, tra l’anfiteatro e il Bar Bianco, c’è un ponticello di metallo ornato da quattro sirene di ghisa armate di remo.

ghisini

Il ponte delle Sirenette – note come le Sorelle Ghisini – è stato il primo ponte interamente metallico d’Italia e ha fatto bella mostra di sè sul Naviglio di San Damiano dal 1842 sino al 1929 quando fu posta in atto la sciagurata decisione di interrare la fossa interna dei Navigli.

ponte delle sirenette

Vuoi perchè il ponticello è sempre stato luogo di ritrovo degli innamorati, vuoi perchè il suo stile si sposava bene con il nuovo parco, il bel ponticello ottocentesco non ha fatto la fine di tutti i suoi simili ma è stato trasferito qui, dove le quattro Sorelle Ghisini continuano a scrutare nella nebbia vegliando sui passanti.

Lombardia, pavia, Via Francigena

PAVIA (XLI PAMPHICA)

Anche i monumenti più antichi non sono eterni. Anche i simboli delle città possono crollare.
Una scoperta stupefacente per un bambinetto che nel Marzo del 1989 non aveva ancora compiuto gli 8 anni.
È per questa presa di coscienza, penso, che ricordo distintamente il servizio del telegiornale che annunciava il crollo della torre civica di Pavia.

Certo, il fatto di avere dei parenti proprio a Pavia ha contribuito a fissare il ricordo; perché a dire il vero la torre in sé per me non significava molto, probabilmente non l’avevo nemmeno mai vista.
Oggi per ricostruirne l’aspetto ho dovuto chiedere aiuto a Google, ma scoprire che il monumento simbolo di una città potesse crollare è stato comunque impressionante.
Insomma, uno cresce con la nonna che canta la storia della Torre di Pisa che pende che pende e mai non vien giù e di colpo scopre che non era vero niente. Che come è crollata la torre di Pavia potrebbe crollare quella di Pisa, il Duomo di Milano o il Cupolone.

E allora mi sembra giusto che la mia visita di Pavia parta da qui: dal basamento della Torre Civica.
Il moncone del basamento della torre è ancora al suo posto, chiuso da una cancellata.
È rimasto lì nell’attesa di una ricostruzione spesso vagheggiata ma mai realizzata, nonostante una proposta di legge del ‘94, mentre le macerie giacciono nel fossato del Castello Visconteo, poco lontano.

Tramontata la speranza di ricostruire la torre, il basamento ospita dal 2013 un memoriale di pietra ed acqua che ricorda le quattro vittime della tragedia del 1989.

Memoriale della torre

La costruzione del Duomo sull’area fino ad allora occupata da due basiliche romaniche inizia nel 1448.
Rocchi, Amadeo, Dolcebuono e soprattutto Bramante e Leonardo da Vinci sono solo alcuni degli architetti che si sono succeduti negli oltre cinque secoli che ha richiesto la costruzione.

Duomo - Facciata e cupola 2

La facciata che domina la piazza, in quei mattoni scurissimi che spesso si trovano da queste parti, è solcata da un’infinità di nervature orizzontali che ho sempre trovato particolari ed affascinanti. Un tipo di decoro che non ricordo di aver visto spesso; di certo mai in area lombarda.
E c’è un motivo: non si tratta di uno strano tipo di decoro rinascimentale, bensì dell’infrastruttura che, secondo i progetti, avrebbe dovuto sorreggere un rivestimento marmoreo.

Non solo: la facciata risale alla fine del diciannovesimo secolo, così come la cupola – tra le maggiori in Italia, entrambe opera di quel Carlo Maciachini più famoso per aver dato il suo nome ad uno dei piazzali più disperanti dell’urbanistica milanese.
Al 1933 risalgono i transetti, strutture ardite in cui il mattone a vista tipicamente lombardo cela una struttura in cemento armato che ha permesso di superare problemi strutturali – legati al peso della cupola – e contemporaneamente di preservare le poche vestigia delle due basiliche romaniche precedenti al Duomo.

Eppure, anche se la facciata resta incompiuta, anche se i muri distrutti dal crollo dell’89 sono stati ultimati solo nel 2013, non si può non considerare il Duomo una struttura pienamente rinascimentale. Con l’eccezione di alcuni discutibili interventi decorativi ottocenteschi, in gran parte rimossi nei successivi restauri, la chiesa resta più fedele al progetto quattrocentesco di quanto non faccia la maggior parte degli edifici coevi.

La pianura lombarda, solcata da decine di fiumi, è per forza di cose terra di argilla e di fornaci.
Non c’è da stupirsi, quindi, se il mattone a vista è lo stilema comune alla maggior parte degli edifici. Dal castello alla casupola di braccianti; dal piccolo oratorio di campagna sino alla cattedrale cittadina, tutto è armonizzato dal colore rugginoso e dalla modularità perfetta del mattone.
E più un centro è rimasto intatto, più questa unità stilistica è evidente.
Il centro storico di Pavia, nonostante gli sconvolgimenti causati dalla natura e dalle guerre, rimane relativamente intonso.

Sinistra Duomo

E così, lasciato alle mie spalle il Duomo, raggiungo un’altra grande chiesa in laterizio.
Se nel progetto il Duomo avrebbe dovuto essere nobilitato da un rivestimento di marmo, a Santa Maria del Carmine il mattone è una scelta compiuta.
La fondazione risale al ‘300 ed è seguita da una storia lunga e complicata. Progettata da Bernardo da Venezia, vede avvicendarsi alla direzione dei lavori tre generazioni della famiglia Solari (Giovanni, Guinforte e Pietro).
Come a dire il gotha dell’architettura lombarda del ‘400.

Pano 0001 - Santa Maria del Carmine

Dietro alla facciata, ristrutturata nell’800 dal solito Maciachini, l’interno di Santa Maria è costellato di ricchissime cappelle seicentesche che, ormai vi sarà chiaro, passano quasi senza lasciare traccia davanti ai miei occhi, ma nasconde nel transetto sinistro la sua massima ragione di interesse: un gruppo di splendidi affreschi quattrocenteschi coloratissimi e tutto sommato ben conservati.

Santa Maria del Carmine - Affreschi

Ad un altro affresco, stavolta nella controfacciata, la devozione popolare attribuisce poteri miracolosi. A saperlo prima avrei invocato la grazia per il freno anteriore di Aiko che mi sta facendo dannare da parecchi mesi.

Santa Maria del Carmine - Fregio

Proseguo ancora verso nord per poche centinaia di metri ed entro nell’ombrosa piazzetta di San Pietro in ciel d’oro, che prende il nome dall’omonima basilica che la domina.
È ancora il mattone l’elemento di unità, ma la fondazione della basilica attuale risale al 1100, e la facciata austera, ingentilita da archetti pensili e da una croce greca dove le strutture gotiche normalmente hanno un rosone lo denuncia chiaramente.

Pano 0003 - San Pietro in ciel d'oro

Durante la prossima legislatura vorrei presentare una legge di iniziativa popolare – la chiamerò Legge Motografo – che istituisca una fascia di rispetto davanti ai monumenti.
Non so se è un problema solamente mio, ma ogni volta che tento di inquadrare in una fotografia la facciata di una chiesa, una statua, un castello, c’è sempre un’auto parcheggiata davanti, un cassonetto, un divieto di svolta a sinistra, una bancarella di souvenir o l’apecar delle bibite che me la impalla.
Il mio obiettivo è che il comune cittadino – io in questo caso – sia autorizzato ad utilizzare modiche quantità di tritolo per risolvere la situazione eliminando gli elementi di disturbo estetico.

Ovviamente anche qui trovo un suv piazzato in mezzo alla piazza, con l’aggravante che il suo proprietario, apparentemente, lavora nella caserma della polizia a fianco della basilica.
Poco male, un modo per evitare di immortalare il fuoristrada lo troverò, ma intanto varco la soglia della chiesa.

San Pietro in Ciel d'Oro Facciata

Normalmente le chiese sono rialzate rispetto alla piazza, o al limite a livello della strada. Per entrare in San Pietro in ciel d’oro, invece, bisogna scendere qualche gradino.

San Pietro in Ciel d'Orp

Questa posizione, sopraelevata rispetto al piano della chiesa, fa sì che non si colga subito l’imponenza dell’arca marmorea che domina il presbiterio, alle spalle dell’altare maggiore. La scenografica struttura rivela le sue proporzioni quanto più ci si avvicina e ci si sente dominati dalla sua mole, incorniciata dal mosaico dorato – il ciel d’oro – che decora la volta dell’abside.

San Pietro in ciel d'Oro - Arca di Sant'Agostino 2

L’arca raccoglie le spoglie mortali di Sant’Agostino d’Ippona, trafugate in Sardegna dall’Africa dai pirati e volute a Pavia dal re longobardo Liutiprando.

San Pietro in ciel d'Oro - Arca di Sant'Agostino

Agostino, però, non è l’unico padre della chiesa a riposare in questa splendida basilica: anche i resti di San Severino Boezio si trovano qui, proprio sotto una piccola finestrella che dà luce alla cripta ipogea raggiungibile mediante una scaletta a lato del presbiterio.
Entrambi i santi nei secoli hanno dovuto assistere, ormai impotenti, ad una progressiva perdita d’importanza della chiesa che, durante il periodo napoleonico, conosce l’onta di essere trasformata addirittura in una palestra militare.

Il centro di Pavia, sebbene carico di vestigia medievali, ha una struttura reticolare di origine romana. L’antico cardo – Strada Nuova – è ancora oggi l’asse di simmetria della parte storica della città, limitata dal Ticino a sud e circondata dai viali di circonvallazione. Fino ad ora mi sono tenuto nella metà ovest del centro, risalendo da sud a nord fino a San Pietro.
A poca distanza da qui, ma nella parte est, sorge il Castello Visconteo.

Gli amanti dell’arte certo conoscono le sue scuderie che ospitano mostre di grande richiamo.
Mostre molto interessanti quelle di opere grafiche mentre quelle di pittura di solito hanno, va detto, la caratteristica di avere titoli molto più altisonanti del dovuto.
Ricordo, ad esempio, di aver visitato “Degas, Lautrec, Zandò – Les folies de Montmartre” il cui titolo onesto avrebbe dovuto essere “Il semisconosciuto Zandò, un paio di tele minori di Degas e due disegni di Lautrec”.
Ma è anche vero che quei due disegni di Lautrec per me valevano il prezzo del biglietto.

Castello - Facciata

Ma oggi non sono qui per visitare la mostra di Ligabue, bensì per osservare l’edificio trecentesco del Castello, sede del potere e dell’indipendenza pavese per molti secoli.
Mentre sono intento a fotografare la facciata sud vedo aprirsi il cancello. Alcuni mezzi utilizzati per l’allestimento di una delle manifestazioni cultrali che si tengono normalmente nella piazza d’armi devono uscire.
Aspetto un attimo, ma il cancello non accenna a chiudersi. Provo ad entrare e nessuno mi ferma. Colgo l’occasione!

Castello - la parete nord 2

I più attenti tra voi entrando potrebbero notare che al castello manca un pezzo. Nel 1527, infatti, le truppe francesi espugnarono il castello e ne rasero al suolo l’ala nord per vendicarsi di una sconfitta di un paio d’anni prima.

castello - la parete nord 3

Ma forse è proprio il moncone romantico assediato dai rampicanti che chiude senza chiudere il perimetro del castello a contribuire al fascino dell’edificio.
Il moncone e le logge dei tre lati superstiti, tutte diverse tra loro.

castello - interno 2

castello - interno 4

Castello - interno 3

Una commistione di stili che fa convivere il gotico con il rinascimentale e che offre un rilassante spettacolo di bellezza a chi si sieda sulle panchine per riposarsi un po’. Specialmente se è entrato senza passare dalla biglietteria.

Castello - Torrione 2

Torno verso sud lambendo il perimetro dell’università – come a Milano sita in un antico ospedale – e la piccola ma deliziosa chiesetta di San Marino per raggiungere la meravigliosa Basilica di San Michele.

chiesa di san marino - facciata

La fondazione della basilica risale al nono secolo. Ciò significa che, finalmente, davanti a me c’è qualcosa che anche Sigerico avrebbe potuto vedere nel suo cammino verso Canterbury.
Certo, la basilica di oggi, riedificata attorno al 1115, non ha nulla a che fare con quella di allora ma si tratta comunque di una delle più antiche chiese della città e di una struttura di grandissimo fascino.

San Michele Maggiore - facciata

A differenza delle altre chiese pavesi – dice la guida verde del TouringS. Michele è rivestita di arenaria che assorbe la luce del giorno e dell’ora, restituendola in toni diversi: grigi a riflettere cieli coperti, caldi nel sole pomeridiano dei giorni sereni, accesi alle lame del tramonto.
Poetico, vero?

San Michele Maggiore - portale

Che altro potrei dirvi io?
Che oltre alla severa facciata romanica dovreste proprio vedere anche l’interno, con i suoi affreschi e con la sua atmosfera densa in cui i fumi dell’incenso vengono accesi dalla luce del tardo pomeriggio che penetra dalla finestra cruciforme ed illumina l’altar maggiore.

San Michele Maggiore - Volta

San Michele Maggiore - affreschi

San Michele Maggiore - Atmosfera 3

Pavia è la porta della Liguria, dicono.
Questo perchè dal suo Oltrepò passa la via del sale che scavalca gli Appennini e scende a Genova.

Ma oggi a me questa frase viene in mente mentre attraverso il Ponte Coperto per andare a riprendere Aiko.
È il Borgo Ticino, con le sue casette colorate sui toni del rosa a farmi pensare alla Liguria.

Borgo Ticino - Dal Ponte

Un tempo villaggio di pescatori, oggi il Borgo è una zona pregiata ed ambita, ma le targhette commemorative sulle facciate spiegano più di mille parole il perchè la città si sia sviluppata quasi solo sulla sponda nord del fiume: le piene del Ticino sono devastanti. Qui l’argine sarà alto un paio di metri, poi c’è la strada e poi questa villetta gialla. Eppure il segno “piena del 2001” è ben più in alto della mia testa.

Il Ponte Coperto è un po’ il simbolo della città, assieme al Castello, alla grande cupola del Duomo e alla Torre che ormai è solo un ricordo.
Amato dai pavesi, dai turisti e persino da Einstein, che a Pavia passò parte della sua adolescenza.

Ponte e cupola del Duomo

Eppure c’è stato il rischio concreto di perderlo. Durante la guerra fu bombardato e distrutto e più d’uno pensò, negli anni immediatamente successivi, che sarebbe stato meglio lasciar perdere e costruirne uno completamente nuovo.

ponte verso il borgo

Ma per fortuna si scelse di ricostruirlo identico a quello trecentesco. Identico o quasi, sì, ma per motivi che non so spiegare leggermente spostato, tanto da non essere più in asse con Strada Nuova.

ponte

Lombardia, Via Francigena

DA SANTA CRISTINA A PAVIA

XL Sce Cristine. XLI Pamphica

Appena ad Ovest di Santa Cristina c’è lo stabilimento Galbani di Corteolona, dove ogni bambino di Milano è stato in gita scolastica alle elementari.
A occhio e croce io ci sono stato nel 1989/90, ma a parte una diversa tinteggiatura dei muri esterni, che riprendono la nuova grafica dell’azienda, mi sembra che non sia cambiato nulla.

Ho la certezza che entrando mi troverei ancora nel grande salone dove gli operai filano la pasta della mozzarella e dove l’odore del latte cagliato toglieva il respiro a noi bambini di città.
Passo oltre, anche se la tentazione di fermarmi a chiedere se posso visitare lo stabilimento è fortissima.

Niente mi leva dalla testa che Sigerico avesse fatto la strada più dritta possibile verso Pavia, ma tutte le fonti descrivono un itinerario piuttosto contorto per questa tappa.
Appena oltre Corteolona, infatti, si piega risolutamente a Sud, si attraversa Costa de’Nobili e si arriva sino a Spessa.

Castello di Spessa

Famosa per il suo ponte, il più recente e il meno bello dei ponti che portano nell’Oltrepo pavese, Spessa ospita anche un castello.
Si tratta di un edificio molto più modesto di quello di Chignolo, ovviamente, ma assai più riconoscibile di quello di Santa Cristina. Di origine trecentesca, è stato pesantemente rimaneggiato nel settecento per adattarlo alla funzione di palazzotto nobiliare e poi, ancora, in senso prettamente agricolo, tanto che oggi è noto come Cascina Castello.

Armi ignote al castello di Spessa

All’interno del bel cortile – oltre a dei pigri gattoni che prendono il sole – si trovano delle sculture vagamente steampunk, realizzate probabilmente dall’associazione Artemista, che nei locali del castello gestisce un ostello, uno studio di registrazione ed organizza eventi culturali di varia natura,

Gatto al castello di Spessa

Da Spessa si ritorna verso nord-ovest e si attraversa Torre de’Negri.
Della torre eponima non rimane traccia, ma mi addentro nel paese alla ricerca di un posto dove mangiare.
Bar Unico dice la prima insegna che incontro, ma è chiuso. Oltre che chiuso, è anche mendace. Si chiama unico, ma appena dietro l’angolo ce n’è un altro. Chiuso pure lui, ma in fondo è domenica.
Poco male. Percorro un altro paio di kilometri e parcheggio proprio nel piazzale davanti al castello di Belgioioso.

Sito Belgioioso d'Este

È ora di pranzo e io ho fame, quindi prima di visitare il castello visito un risotto alla salsiccia e un bollito misto con le salse in un ristorante lì vicino.

Castello di Belgioioso - Portoni

Il Castello è un’architettura stratificata, che testimonia il passaggio – nei suoi quasi sette secoli di vita – da castello in senso proprio, con funzioni militari e difensive, a palazzo nobiliare.
Ad Est, affacciato sulla piazza principale del paese, fa bella mostra di sè il corpo trecentesco: un’alta muraglia con merlatura ghibellina circondata da un fossato con ponte levatoio. Parte della facciata nord mantiene lo stesso impianto, ma si affaccia sul padiglione delle serre, settecentesco, da cui lo separa un piccolo braccio del grandissimo giadino all’italiana.

Serre del Castello di Belgioioso

Al settecento risale anche l’ultima sistemazione del castello, di cui la facciata ovest e il parco, oggi vero cuore del polo espositivo del castello.
Belgioioso è, infatti, un polo espositivo piuttosto rilevante e ospita ogni anno fiere e mostre che attirano migliaia di visitatori.

Castello di Belgioioso

Gli ambienti interni ed il parco sono visitabili solo in queste occasioni, ma io ho trovato le due corti medievali accessibili anche in periodo di chiusura.

Castello di Belgioioso

A me l’architettura settecentesca dice poco, quindi non datemi troppo retta, ma per me il motivo principale di interesse del castello è l’interno della prima corte, proprio alle spalle della facciata est.
Qui, infatti, sopravvivono tracce del decoro pittorico più antico. Losanghe, motivi geometrici e disegni fitomorfi. È abbastanza raro, per lo meno da queste parti, trovare tracce così leggibili, e questo basta per lasciarmi ipnotizzato per una buona mezzora.

Castello di Belgioioso

Ma per breve che sia, la strada mi chiama.

Sebbene resti convinto che la strada fatta da Sigerico, e poi la Via Francigena seguita dai pellegrini del nord, dovesse essere la più dritta possibile, lasciando Belgioioso mi discosto leggermente dal tracciato della Codognese per raggiungere San Giacomo della Cerreta.

Lungo la strada la campagna della bassa è sempre uguale a se stessa, verdissima anche oggi che la primavera è appena iniziata, ma in lontananza l’orizzonte cambia radicalmente. Non è la solita – amatissima – linea irrimediabilmente piatta che caratterizza queste zone: i colli impervi dell’Oltrepò, lontano, oltre il fiume, incorniciano il quadro.

Orizzonte oltrepadano

Proprio su quei colli corre una variante della Francigena nota come Via dei Malaspina.
I pellegrini diretti a Roma lasciavano Pavia puntando risolutamente a Sud. Oltrepassata Voghera affrontavano l’aspra Val Staffora e il Passo del Penice per visitare le reliquie di San Colomnbano a Bobbio epoi ricongiungersi al tracciato della di Sigerico a Pontremoli.

Ma la mia meta è molto più vicina. Pochi chilometri a sud-ovest di Belgioioso sorge, in una frazione di poche case, il piccolo oratorio quattrocentesco di San Giacomo della Cerreta.

San Giacomo della Cerreta

Istituito come ostello per i sempre più numerosi pellegrini diretti a Roma lungo la Francigena e per gli italiani diretti a Santiago de Compostela, l’oratorio conserva un bel ciclo di affreschi quattrocenteschi e, con le sue forma a capanna e i suoi fregi in cotto, è un esempio da manuale dell’architettura sacra nella Lombardia dell’epoca.

San Giacomo della Cerreta

Lasciata alle spalle San Giacomo, riprendiamo la strada principale a Linarolo e sfioriamo Motta San Damiano e la chiesa dei cavalieri che abbiamo eletto a simbolo di questo nostro viaggio.

0006 - San Damiano

La Codognese entra a Pavia da sud-est. Supera il Naviglio all’altezza di una delle ultime conche e si trasforma nel Lungoticino Sforza.

Potremmo fermarci qui, ma c’è ancora una cosa che voglio fare, che faccio ogni volta che vengo a Pavia: raggiungo il ponte coperto, lo attraverso e mi fermo sulla sponda del fiume a guardare la città – arroccata sull’altra sponda con le sue torri e i suoi mattoni – e la cupola del Duomo che svetta.

Ponte coperto e Cupola del Duomo di Pavia

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano

LA MACCHINA DEL TEMPO (LA CA’ GRANDA)

Vicolo Santa Caterina sembra solamente una stradicciola pedonale stretta e umida, dove non batte mai il sole, ma per me oggi è una sorta di macchina del tempo.

Dalla parte di Piazza San Nazzaro in Brolo è il 2017, la primavera sembra essere finalmente iniziata e io sono un Motografo trentacinquenne.
Ma appena superato l’angolo, dove la strada rinizia ad allargarsi, è l’inizio di Aprile del 2006, il tempo fa abbastanza schifo e io, ventiquattrenne, sto andando a discutere la tesi.

Non sono diventato completamente pazzo, eh, ma la Ca’ Granda – la nostra meta di oggi -.ospita l’Università degli Studi e l’ultima volta che ho trascorso più di quindici minuti al suo interno è stato il giorno della mia laurea.

Ci sono diversi modi per raggiungere la Ca’ Granda, ma Vicolo Santa Caterina è il mio preferito. Un po’ per la stradina in sè, che è molto caratteristica, ma soprattutto perchè entrando in Largo Richini da qui si gode di una visione di scorcio su tutta la facciata rinascimentale, ritmata da archi e fregi, con il portone che immette nella corte d’onore sullo sfondo.

0015 - Fregio della facciata seicentesca

Il nome di questo splendido edificio è, anche per noi milanesi, fonte di confusione.

Non è che sei confuso tu, Motografo? L’è la Statale, el sann tucc…

No, spiego. Quella che tutti chiamiamo La Statale o Festa del Perdono (rispettivamente a causa della funzione e della via in cui si trova) è in realtà la Ca’ Granda (casa grande), prima sede dell’Ospedale Maggiore di Milano voluto dal Duca Francesco Sforza a metà del quindicesimo secolo.
Ma attenzione, Ca’ Granda è anche una fermata della metropolitana nella periferia nord, quasi al confine con Cinisello Balsamo. Questo perché quando nel ‘39 fu inaugurato l’Ospedale Niguarda, la piazza e la via prospicenti all’ingresso furono chiamate Piazza Ospedale Maggiore e Via Ca’ Granda.

Ma che?!?

‘Spetta, non ho mica finito. Il Niguarda è in Piazza Ospedale Maggiore, sì, ma l’Ospedale Maggiore – Ca’ Granda è in realtà il Policlinico, che si trova in via Francesco Sforza. Molto vicino alla Statale, ma non nella Ca’ Granda stessa.

Vi pare complesso? Ecco, pensate che se per caso voleste andare alla stazione del Metrò di Ca’ Granda dovreste prendere la linea 5, che però è la quarta linea di Milano. E che la 4 hanno iniziato a costruirla ben dopo l’inaugurazione della 5.

Se avete mal di testa trovate l’OKI sulla prima mensola dell’armadietto del bagno.

0017 - Le mani nei capelli (fregio della facciata seicentesca)

Bene, mentre vi fa effetto il ketoprofene, parliamo della Ca’ Granda quella vera.
A Milano, nei secoli, erano sorte decine di istituzioni assistenziali. Ospizi per i poveri, per gli orfani, per i malati, i pazzi, i vecchi… Non ci si capiva nulla (nemmeno allora), e l’arcivescovo Rampini decise, nel 1448, di emanare una sorta di legislazione per coordinare tutte le iniziative.
Nell’ambito di questa riorganizzazione, ormai nel ‘56, il Duca Francesco I Sforza diede l’avvio alla costruzione dell’Ospedale Maggiore chiamando a dirigere i lavori Antonio Averluino, meglio noto come Il Filarete.

Questi ebbe l’idea di realizzare un edificio quadrato diviso in quattro cortili uguali da una crociera: quattro corsie disposte a croce in cui trovavano posto i letti dei malati.
Presto Filarete lasciò i lavori, sostituito da Guiniforte Solari, cui probabilmente di deve un tentativo di armonizzare il gusto fiorentino di Filarete con quello tardogotico dei Milanesi inserendo nella facciata le meravigliose bifore a sesto acuto con i loro elaboratissimi fregi di terracotta.

0002 - Putto (facciata del cortile d'onore)

Entrando nell’edificio, come quando ero studente, mi dirigo subito nella parte più antica dell’università entrando nel chiostro di filosofia.
Che in realtà si chiama cortile della ghiacciaia.

0006 - Cortile Ghiacciaia

I bombardamenti del ‘43 l’hanno in gran parte distrutto e in fase di restauro si è preferito completare le parti mancanti con una struttura moderna, ma sui lati nord – quello da cui si entra – ed ovest l’architettura originaria rimane leggibile.
Al centro c’è una specie di cisterna – oggi usata come lucernaio della biblioteca di filosofia – che un tempo era la ghiacciaia dove veniva immagazzinata la neve per conservare gli alimenti deperibili.

0008 - Cortile Ghiacciaia

Oggi come dieci anni fa il cortile è il meno bello e il più frequentato dell’ateneo. Il tasso di fuoricorso è sempre elevatissimo e sono abbastanza certo di aver riconosciuto qualcuno dei frequentatori abituali, solo poco più incanutito.

Essendo il più popolato dei chiostri, qui succede sempre qualcosa. Giuro che una volta ho assistito a un litigio furioso, con tanto di spintoni e vaffanculi, tra un sostenitore delle teorie aristoteliche e un platonico osservante.

Come dicevo, non ho mai amato più di tanto la ghiacciaia. Ma attraversando uno dei bracci della crociera compare il suo gemello: il cortile della legnaia (chiostro di storia, per noi altri), ben più piacevole per aspetto e atmosfera.

0004 - Cortile Legnaia

Anche la legnaia è stata pesantemente colpita dalle bombe del ‘43, ma il restauro ha permesso di riportarla quasi allo stato originale.

La biblioteca di storia, che prende luce dalle pareti del pozzo centrale, è una delle meglio organizzate dell’intero ateneo.

Non ho mai trovato una spiegazione razionale, ma la qualità della luce cambia completamente tra un cortile e l’altro. Quella della legnaia è del tutto diversa da quella della ghiacciaia, nonostante i due cortili siano orientati nello stesso identico modo.
È una luce più calda, più dolce. I colori sembrano più vividi,

Ma il mio preferito dei cortili del Filarete è quello della farmacia. Gemello nord-occidentale della giacciaia, è stato sostanzialmente risparmiato dai bombardamenti e mantiene quasi intatta la forma assunta all’inizio del ‘500.

0020 - Cortile Farmacia

Il cosiddetto chiostro di giurisprudenza, in realtà, è il meno frequentato dell’università e si trova quasi sempre un posto per sedersi a leggere o a chiaccherare sui muretti del portico.
Se la legnaia è misteriosamente luminosa e solare, la farmacia ha, per motivi altrettanto inspiegabili un microclima più lombardo. È sempre fresca e ombreggiata, ma tendenzialmente molto umida.

0019 - La Velasca dalla Farmacia

Dissolvenza al nero.
Di colpo è il 2002. Sto girando da quaranta minuti tra un dipartimento di giurisprudenza e l’altro perchè un’amica mi ha chiesto di consegnare un documento per suo conto, ma non riesco a capire dove andare.

A un certo punto mi rendo conto che quello che si vede dalla finestra dell’ufficio non è il cortile della farmacia, bensì quello che da allora avrei chiamato il chiostro fantasma.

0023 - Cortile dei Bagni

Perfettamente conservato e risparmiato dalle bombe, il chiostro fantasma è stato lungamente il mio cruccio. Ero certo che esistesse. Del resto la pianta della parte vecchia dell’università è chiaramente un quadrato, circondato in parte dal porticato dell’infermeria, ma nessuno sembrava sapere come diavolo arrivarci.

Dopo quel fugace incontro, dall’alto di un ufficio dove non sarei mai più tornato, ho spesso cercato di trovare un accesso al chiostro fantasma, ma senza risultati.

Dalla farmacia non si passa; dal porticato, apparentemente, nemmeno.
Ora, dovete sapere che ai tempi la facoltà di giurisprudenza conduceva una guerra silenziosa contro il resto del mondo per accaparrarsi spazi e risorse.
Le biblioteche di legge – tra cui la splendida crociera quattrocentesca – erano blindate e inaccessibili agli studenti di altre facoltà; due delle tre aule grandi erano riservate alle sole lezioni di diritto e la presenza di studenti di altre materie nei pressi dei dipartimenti di diritto era tacitamente scoraggiata. Quindi non è che avessi tante occasioni per compiere le mie esplorazioni.

Ma oggi è tutto diverso. Io sono cresciuto e non ho più nessuna soggezione. Inoltre per puro caso capito in Statale durante un evento di orientamento proprio per gli studenti di diritto. Una delle porte dei dipartimenti è aperta. Sbircio con la coda dell’occhio e…

Cacchio, eccolo lì.

0022 - Cortile dei Bagni

Certo, non riesco comunque ad entrare – una porta di vetro chiusa a chiave me lo impedisce – ma finalmente ho ritrovato quello che scopro chiamarsi cortile dei bagni.

Finalmente la coltre di omertà è sollevata e ho potuto fare luce su uno dei segreti meglio celati dell’ateneo.

I WANT TO BELIEVE!

Il grande cortile del Richini, seicentesco, è il cortile d’onore dell’ospedale e, oggi, l’accesso principale all’Università.

0010 - Cortile d'Onore

Ogni ateneo ha le sue superstizioni e le sue regole non scritte. La nostra riguarda l’aiuola del cortile d’onore.
Chi dovesse calpestarne l’erba prima di laurearsi, si dice, potrebbe anche fare a meno di proseguire negli studi, che tanto non riuscirà mai a terminarli.
In compenso il giorno della proclamazione il laureato deve (nonostante il parere contrario del rettore) levarsi le scarpe e saltare la siepe, per correre scalzo nell’erbetta morbida.

0012 - Fregio del cortile d'onore dalla balconata della sala lauree di medicina

Un trucco di pochi? Entrando nell’ala nuova (sulla sinistra del cortile) salite subito le scalette alla vostra destra cercando la sala lauree di medicina. Da lì potrete uscire sulla balconata, l’unica accessibile al pubblico, che si affaccia sul cortile dominandolo. E nonostante ci sia sempre qualche furgoncino posteggiato, qualche transenna, qualche operaio al lavoro, la vista è veramente spettacolare.

0011 - Cortile d'Onore

L’ala moderna – setteentesca – è in gran parte rifatta negli anni ‘50 e non è che ci sia molto da vedere, ma per me mettere piede nel coridoio dell’aula magna è stato un vero tuffo nel passato.
Alla mia destra il bel cortile delle balie passa inosservato rispetto alla meraviglia che ho davanti.

È esattamente come mi ricordavo!

0014 - Il corridoio dell'aula magna e i militanti di LC

La base delle scale delle aule a gradoni è l’habitat naturale di due splendidi esemplari – un maschio e una femmina – di militante di Lotta Comunista.
Fino agli anni ‘70 erano piuttosto comuni, ma oggi è quasi impossibile vederne uno fuori dai musei. E invece qui ce ne sono ben due.

Io mi sin sempre definito un socialdemocratico del cazzo*. Un tempo ci litigavo accusandoli di essere i testimoni di Geova del movimento; oggi ci ho discusso perchè li ho accusati di guardare l’attualità secondo una prospettiva che era già vecchia nel ‘63.
Ma hanno vinto loro rispondendomi: se tu sei un democratico la tua prospettiva è vecchia di 2.300 anni. Aggornati tu, compagno!

Vorrei chiudere con questa frase, ma mi corre l’obbligo di dirvi che c’è ancora qualcuno in grado di batterli i Lottatori….

0026 - Ma che davero

*= Il socialdemocratico del cazzo è una creatura nota per cambiare aspetto a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Da destra (chessò, da un circolo del PD a maggioranza renziana) sembra un passatista legato a concetti novecenteschi, presumibilmente nostalgico di una URSS pre-glasnost. Ma per la particolare conformazione dei suoi occhi, il Militante di LC vedrà, invece, un traditore della classe, un nemico del popolo ultracapitalista…

Lombardia, Varese

IL SEPRIO LONGOBARDO

A nord di Milano esiste la celeberrima fascia dell’imperativo*. Un’area relativamente compatta in cui tutti i nomi dei paesi finiscono in -ate, come se, appunto, fossero delle esortazioni.

Gallarate, Tradate, Malnate. Liscate, Pescate, Grandate. Trecate, Galliate, Samarate. Garbagnate, Novate, Cesate e Baranzate. Gornate, Mozzate, Turate, Fate, Baciate, Lettera e Testamento.

L’origine di questi nomi è talvolta celtica e talvolta latina, fatto sta che è estremamente frequente in una determinata area tra il Piemonte Orientale e la provincia di Brescia e praticamente assente in tutto il resto d’Italia. Non c’è una spiegazione per questo, salvo forse l’innata assertività delle popolazioni di queste parti…

Cairate confina con Lonate (Ceppino, non quella che non deve essere nominata), Tradate e Rovate ed è – come potete immaginare – proprio al centro di questa fascia, ma io non sono certo venuto fino a qui per parlare di toponomastica.

La mia meta è il monastero benedettino di Santa Maria Assunta.

Lo scorso anno ho scritto all’assessorato al turismo della Provincia di Varese per richiedere la mappa della Via Verde Varesina.
L’ho fatto come si compra un biglietto della lotteria: certo che non avrei mai avuto risposta.

fiorinfiorello 3

E invece un mesetto più tardi mi è arrivata una busta contenente la mappa che avevo chiesto e, per giunta, tutta una serie di opuscoletti e depliant sulle destinazioni turistiche della Provincia. Che uno non lo direbbe mai, ma nasconde tante piccole perle sconosciute.

È qui che ho sentito parlare per la prima volta di Cairate.
È che io sono una bestia disordinata, e l’opuscolo è rimasto appoggiato insieme a molti altri sul ripiano “gite da programmare” del mio piccolo ufficio casalingo.
(Ok, ok… Il ripiano in questione è il davanzale del bagno. Perchè, voi dove studiate i vostri itinerari, normalmente?)

Poi qualche tempo fa il buon M. mi ha parlato nuovamente del Monastero di Cairate, riaprendomi quel piccolo cassettino della memoria in cui avevo stipato il ricordo.

La leggenda vuole che il monastero sia stato fondato – come dono per grazia ricevuta – da Manigunda, la nipote del re longobardo Liutiprando.

Di questo, naturalmente, non esistono prove, e Manigunda probabilmente non è mai esistita, anche se c’è chi dice che il suo fantasma viva ancora tra le mura del convento.
Ciononostante l’origine longobarda del monastero è provata, tra l’altro, dal fatto che pur trovandosi nella diocesi di Milano, il monastero fu sempre soggetto al vescovo della capitale Pavia.

Il monastero di Santa Maria Assunta ha avuto una storia quasi millenaria, ma dopo un paio di secoli di progressivo declino culminati con la soppressione napoleonica, la sua struttura è stata abbandonata, smembrata in diverse proprietà e utilizzata per lo più come struttura agricola.

Tessitura muraria

“L’ultima volta che sono entrato qui prima del restauro – mi dice la guida volontaria che mi sta accompagnando tra le stanze del monastero – questo locale, che probabilmente era il refettorio delle monache, era una stalla. Dove adesso ci sono quei pannelli c’erano le mucche e i vitelli”.

Un primo passo per il recupero della struttura si ha negli anni ‘60, quando lo stabile viene messo sotto tutela dalla sovraintendenza. Il comune ne acquista metà, ma l’altra metà resta di proprietà di una famiglia del posto con cui non si trova un accordo. Solo nei tardi anni ‘80, con l’intervento della Provincia, la struttura torna all’originaria unità e si iniziano gli scavi archeologici.

chiostro 2

Scavi durante i quali si scopre che prima del monastero, di Manigunda, e dei Longobardi qui c’era una Villa romana e, proprio dove sarebbe sorta la sala conciliare delle monache, una piccola necropoli.

L’intera storia architettonica del monastero, mi spiega la guida, è fatta di riuso del materiale esistente. Accanto alle tombe romane ne sono state trovate tre di epoca longobarda. Tre tombe privilegiate, la cui struttura in pietra decorata è fatta recuperando steli e bassorilievi di epoca precedente.

Sepultura con materiali di recupero

L’architrave con il fregio con le colombe – da sempre considerato il simbolo del monastero – non è stata trafugata negli anni di abbandono perchè era stata utilizzata come gradino di una scala.

colombe 2

Il cosiddetto sarcofago di Manigunda è privo di coperchio – mi dirà poi – perchè negli anni era stato probabilmente usato come vasca di un lavabo.

Tutto sommato questo è uno degli aspetti più interessanti della struttura. Rimane molto poco dell’atmosfera del monastero. Le grandi sale sono tendenzialmente vuote ed allestite come museo (si sta anche preparando il museo multimediale dei Longobardi, che aprirà probabilmente alla fine del 2017), ma in questo concatenarsi di modifiche, riusi e riscoperte si riesce a vedere e a seguire il corso della storia.

tamburi

Tra una teca con i resti delle maioliche delle monache e il ricco appartamento della Badessa Castiglioni, arriviamo a una porticina che dalla balconata del chiostro immette nella vecchia chiesa. E mi trovo davanti l’incredibile affresco di Aurelio Luini (figlio di Bernardino).

Panorama Luini

La rappresentazione della vita della Vergine, dalla nascita all’assunzione, è imponente e coloratissima e il punto di vista che si ha da questa balconata – che pure non esisteva ai tempi del Luini – permette di apprezzare l’opera da una posizione privilegiata.

affresco

Attorno alla metà del 500 i Longobardi passano l’Isonzo e entrano in Italia. La resistenza bizantina è debole e in pochi anni il loro dominio si estende dal Friuli al Piemonte Orientale e poi, una manciata di anni più tardi arrva ad includere la Toscana, l’Umbria, il Lazio e la Campania. Cairate, quindi, era solo uno dei loro insediamenti, e nemmeno il più importante. A pochissimi kilometri sorgeva il castrum di Castelseprio con l’annesso Monastero di Torba.

Proprio il Monastero di Torba – oggi nel territorio di Gornate Olona – è la mia tappa successiva.
Se a Cairate l’atmosfera è stata irrimediabilmente guastata dalle trasformazioni architettoniche e il principale motivo di interesse sono le opere conservate, a Torba è tutto il contrario.
Sebbene anche qui le monache avessero lasciato il posto ai mezzadri, la struttura del convento non aveva subito particolari modifiche e, quando negli anni ‘70 il FAI ha iniziato l’opera di recupero del monumento, il restauro ha dovuto rimediare ai segni del tempo e dell’abbandono, ma non cercare di intuire una forma sotto decine di strati di modifiche.

Il complesso monastico

Appollaiato su un fianco della collina di Castelseprio, il monastero comprende una piccola chiesetta di pietra e mattoni, un fienile, il refettorio – oggi ristorante – con il forno per il pane a disposizione dei pellegrini ed una torre di avvistamento di epoca romana.

chiesa dalla torre

Appena sopra la chiesa inizia un tratto di mura dell’insediamento di Castelseprio, che sta sulla cima della collina.

Piccolo, raccolto, immerso nel verde, il monastero di Torba è un gioiellino fatto tutto di atmosfera. La quiete della valle dell’Olona – sebbene la zona industriale sia a un tiro di sputo – è come amplificata dalla semplicità delle costruzioni.
La chiesa, di pietra e mattoni, è completamente spoglia. Si intuiscono appena le tracce degli affreschi del nono secolo – ormai inintelleggibili – e solo nella piccola cripta absidale rimane qualche traccia di decoro scultoreo.

Abside

È nella torre che si nasconde la sorpresa. Il livello più basso è ancora spoglio, fedele alla vocazione militare dell’edificio, ma al piano superiore si apre una stanza quadrata, illuminata da grandi finestre decorata da affreschi che descrivono la glorificazione di Gesù.

Cristo imberbe (?)

Interessante è il dettaglio delle monache rappresentate negli affreschi, prive di lineamenti riconoscibili, come a voler sottolineare la perdita di individualità sottesa alla scelta monastica.

le monache senza volto

La fortificazione di Castelseprio nasce, a quanto pare, nel quarto secolo come linea difensiva contro le migrazioni dei popoli germanici ma, ironia della sorte, oggi è ricordato soprattutto per le testimonianze della presenza dei Longobardi – germanici – nel varesotto.

Circondato da un bosco di latifoglie, a poche decine di metri dal centro del paese odierno, l’insediamento era circondato da spesse mura in pietra – le stesse visibili a Torba – e da un fosso solcato da un ponte di cui oggi restano solo i piloni.

Piloni del ponte di accesso al Castrum

All’interno della cerchia si indovinano i resti di alcuni edifici abitativi – di cui resta solo la pianta – e di almeno due grandi chiese: San Giovanni Evangelista, di cui resta parte dell’abside e del battistero, e San Paolo, di cui è visibile l’abside e parte della pianta esagonale. Più in là la cosiddetta Casaforte, unico edificio non religioso di cui resti qualcosa più che la pianta, sorge isolata in fondo a un pianoro che domina la valle dell’Olona. Ancora più in là, dove le mura iniziano a scendere verso Torba, un piccolo convento di molto successivo ospita l’antiquarium dove sono raccolti i reperti ritrovati in loco coprendo un arco di tempo che va dall’età del bronzo al ‘200.

San Giovanni Evangelista da San Paolo

Proprio alla fine del ‘200 risale la distruzione dell’insediamento nell’ambito di una guerra tra Milano e l’allora autonomo Contado del Seprio.
I Milanesi vinsero e l’arcivescovo Ottone Visconti ne decreterà l’abbandono completo, salvo permettere l’uso delle chiese, che resteranno frequentate sino al ‘600 inoltrato.

Pavimentazione del fonte battesimale di San Giovanni Evangelista

Se pure abbandonata, la vecchia Castelseprio non sarà mai del tutto dimenticata. Studiosi ed eruditi ne studieranno i resti a più riprese e già nell’800 si avranno attività – sebbene per certi versi predatorie – volte a valorizzare la memoria del luogo.

San Paolo

Ma è solo nel ‘44 che furono (ri)scoperti gli affrechi di Santa Maria Foris Portas.
Sita fuori dal paese, come dice il nome, Santa Maria è una chiesa a tre absidi databile tra il quinto e il nono secolo che, nel ‘900, era ormai utilizzata come magazzino agricolo.

Santa Maria foris portas

Sull’abside di fondo è visibile un ciclo di affreschi impressionante, seppur danneggiato dal tempo.
Ora, io non sono uno storico dell’arte, e di pittura medievale capisco davvero poco, ma sono abbastanza sereno nel dire che la delicatezza del disegno e del colore di questi affreschi è qualcosa di straordinario.

Affresco (Adorazione forse)

Maria

Sembra – per lo meno all’ignorante che sono – che l’anonimo autore di queste opere abbia lasciato da parte tanto gli effetti cromatici forti quanto la ieraticità dei personaggi per privilegiare un linguaggio narrativo.
Se dovessi descriverli – ma per fortuna ho delle foto da mostrarvi – parlerei quasi di illustrazioni più che di affreschi.

Bambin Gesù

Nonostante le tante campagne di studio, la datazione degli affreschi è ambigua.
Se è abbastanza certo che l’anonimo Maestro di Castelseprio non avesse un’origine culturale Longobarda, gli studiosi non sono concordi: una scuola di pensiero si concentra maggiormente su aspetti quali tratto e impostazione spaziale e parla di un pittore di tradizione bizantina che potrebbe aver operato nel VI, VII secolo; un’altra scuola, che si concentra di più sull’impostazione drammatica e narrativa del ciclo, parla di un autore dell’VIII secolo inoltrato, inserito in un contesto di revival ellenistico proprio della cultura carolingia. Praticamente una sorta di vintage dell’alto medioevo.

“Un paio d’anni fa – dice il custode – sono venuti qui tre professori: un italiano e due stranieri. Hanno chiuso la chiesa per una settimana. Hanno fatto i rilievi, i test, hanno discusso per giorni interi. Se ne sono andati così come sono arrivati, ognuno con la sua idea.”

Sia come sia, a me della datazione frega il giusto.
A me interessa la meraviglia di questo luogo. Il contrasto tra l’odore della campagna qui fuori e quello della pietra e dei mattoni, la luce che filtra dalle monofore, l’essenzialità di questo spazio vuoto e calmo e la potenza di questi affreschi.


*= Va bene, me la sono inventata in questo momento, ma non vedo perchè non possa essere accettata a livello accademico.

Lombardia, Via Francigena

DA CORTE SANT’ANDREA A SANTA CRISTINA

XXXIX Sce Andrea. XL Sce Cristine

L’argine protegge il paese dalla furia del fiume, ma al tempo spesso impedisce che il paese e il fiume si guardino direttamente.
È un confine netto tra lo spazio del fiume e lo spazio dell’uomo.
Quasi sconfinato il primo; minimo il secondo. Corte Sant’Andrea quasi non esiste. Quattro case addossate alla sponda del Po, circondate da campi e risaie.

Corte Sant'Andrea - il fiume

Lascio la moto proprio sull’argine e scendo verso il fiume.

C’è ancora qualche metro quadrato di terra coltivata, presa in prestito più che strappata al fiume, qualche albero una sponda pietrosa dove siedono pochi anziani pescatori.
Per me è prima mattina, loro probabilmente son qui da ore.

Corte Sant'Andrea - l'albero sul fiume

Un pontile di metallo, da poco ristrutturato, è l’inizio del nostro itinerario e l’inizio del cammino di Sigerico in Lombardia.
Qui, stando al suo diario, attraccò il battello preso a Soprarivo (Piacenza). Una colonna di mattoni ed una sorta di lapide segnano il luogo del Transitum Padii e la strada ciclabile ricalca il tracciato originario del cammino dell’arcivescovo inglese verso Pavia.

Corte Sant'Andrea - Haec Romam

È il momento di mettersi in viaggio. Starei ore a guardare il fiume che scorre davanti a me, ma la strada mi chiama.

Orio Litta - Villa da lontano

Orio Litta, il secondo paesino che tocca la nostra strada, è a un tiro di schioppo.
La tardobarocca Villa Litta-Carini, unica attrazione del luogo, è visibile già dall’argine del Po e domina la campagna circostante.
La villa si può visitare in occasione di mostre e manifestazioni varie, ma in questa domenica di Marzo non c’è nulla in calendario e mi devo accontentare di guardare l’imponente facciata dall’esterno della cancellata.

Orio Litta - Villa

La Via Francigena istituzionale corre poche decine di metri più a sud, tagliando per i campi e le stradine vicinali, ma per chi si muove in moto l’asse portante di questa prima parte di percorso è la Provinciale 234 Codognese: un lungo rettilineo che collega Pavia a Cremona costeggiando la sponda nord del Po.
Ma magari qualcuno di voi vuole provare l’emozione di ripercorrere i passi di Sigerico a piedi.
Buone notizie!
La ferrovia Pavia-Cremona corre parallela alla provinciale e i suoi treni, relativamente frequenti, fermano in quasi tutti i comuni toccati dalla Via Francigena.
Potete mollare, per esempio, la macchina qui ad Orio Litta e camminare fino a Miradolo, a Belgioioso o, se avete buone gambe, addirittura fino a Pavia e poi prendere il treno e tornare alla partenza, senza troppe preoccupazioni.

Io e Aiko, intanto, ci muoviamo verso ovest. Superiamo il ponte sul Lambro, confine tra le province di Lodi e di Pavia e raggiungiamo Chignolo Po.

Chignolo Po - Castello

Non sono qui per correre su una delle due piste che si contendono il favore dei motociclisti della zona a colpi di ruspa.

Il castello è l’abitazione privata di un noto avvocato, ma esiste la possibilità di partecipare ad una visita guidata di alcune sale (c’è persino il pacchetto scontato su GroupOn); io però sono solo di passaggio e mi limito a osservarlo da fuori.
O meglio, ci provo.

Per quanto imponente possa essere il castello, con un edificio principale di almeno tre piani e un’alta torre centrale, il muro di cinta lo nasconde assai bene alla vista.
Quando arrivo al cancello trovo due pensionati in formazione piramide umana che tentano di issare la loro fotocamera al di sopra della spessa lamiera d’acciaio che lo blinda. Li stupisco scegliendo la strada più semplice: mi inginocchio e la mia reflex la faccio passare da sotto.

Ma il punto di vista più suggestivo sul castello si ha dallo sterrato che si stacca a destra dalla strada (via Lambrinia) che da Lambrinia porta in paese.
Percorrete pochi metri e vi troverete davanti alla classica recinzione di rete agricola da cui osservare senza ostacoli il complesso, di origine duecentesca ma restaurato tra sei e settecento, e quel che rimane dell’affascinante palazzo del tè settecentesco che sorge, isolato, nel parco.

Chignolo Po - Castello e Palazzo del te

Ora, intendiamoci, io sono andato un po’ allo sbaraglio e non sono riuscito a organizzare la visita guidata, ma a voi consiglio assolutamente di muovervi per tempo, perchè la particolarità dell’edificio e il perfetto stato di conservazione rendono questo castello un gioiellino unico nel suo genere.

La strada di Sigerico prosegue verso est e tocca i confini del comune di Miradolo Terme.
Già il pellegrino del nono secolo avrebbe potuto sentire parlare delle sorgenti saline di Miradolo, ma è solo dall’inizio del ventesimo secolo che esiste il complesso termale.

Un po’ decadute, le Terme di Miradolo, ammettiamolo.

Terme di Miradolo - Terme

Fino agli anni ‘80 funzionavano a pieno regime e il bellissimo albergo Milano – oggi all’asta – era sempre pieno.

Poi la crisi del turismo termale classico ha colpito duro, qui come in tutti centri termali novecenteschi.
I gestori dello stabilimento sembrano avere perso un po’ di tempo prima di adeguarsi alla nuova onda delle terme da relax, ma alla fine qualcosa hanno fatto.
I pareri sulla qualità dello stabilimento di Miradolo sono discordanti, ma volendo fare una piccola deviazione dal percorso canonico della Via Francigena, potrebbe essere piacevole passare un paio d’ore tra idromassaggi e saune.

Oppure potremmo fare una cosa più alla Motografo e buttarci sull’enogastronomia.
Appena a nord di Chignolo si trova San Colombano al Lambro.

Quando fu creata la Provincia di Lodi, nel 1992, San Colombano ottenne di poter restare nella Provincia di Milano, diventandone a tutti gli effetti una exclave.
Per quanto mi piaccia pensare che l’abbiano fatto per dare nutrimento alla mia mania per le stranezze geografiche, sono costretto ad ammettere che nel ‘92 io avevo undici anni ed è improbabile che da quelle parti intuissero la mia importanza.

E allora a cosa si deve questa scelta? Dal 1984 il vino che si produce qui è D.O.C.
Di più: è l’unica D.O.C. della provincia di Milano.
Sarebbe rimasta l’unica anche nella Provincia di Lodi, che non è un territorio particolarmente vocato al vino, ma vuoi mettere il prestigio e, immagino, i contributi?

Il San Colombano, che potete assaggiare all’enoteca del consorzio, esiste rosso (Croatina, Barbera, Uva rara) e bianco (Chardonnay e Pinot nero).
Entrambi esistono come vini fermi – e il rosso non è male – ma è molto, troppo diffusa la perversione di imbottigliarli frizzanti.
Secondo me un vino con le bolle – peggio che mai un rosso con le bolle – è un vino a cui è andato storto qualcosa. Piuttosto bevo un gingerino.

Ma se a voi piace non sarò io a giudicarvi.
Degenrati!

È il momento di rimettersi in marcia.

Santa Cristina, per me, è un paese di grande importanza.
Il ramo paterno della mia famiglia viene da qui, al punto che davanti al cimitero c’è persino una via dedicata ad un lontanissimo parente ecclesiastico.
Via Monsignor Motografo, suona bene, vero?

Quando da bambino venivo qui a trovare la famiglia, le principali attrazioni per me erano i vitellini nella stalla, le macchine agricole nella rimessa e qualche raro giro in trattore con lo zio, a vedere i campi di carote e di piselli.
Per il resto ricordavo un paesotto piatto e nebbioso senza particolari attrattive.

Grande, quindi, il mio stupore quando ho scoperto che ci sarebbero un castello e i resti di un’abbazia.

Segue un breve consulto con i parenti.

– L’unica rovina dell’epoca è una bifora sulla facciata del “Collegio”, che si vede anche dalla bassa.
– Sì, sì, me la ricordo anche io… Lo zio – quello dei giri in trattore – aveva un campo lì sotto che era stato il cimitero dei monaci.

Santa Cristina - La bifora del Collegio

E nel mio cervello partono due film simultanei.
Il primo è una sorta di documentario neorealista dove vediamo il povero zio costretto a interrompere l’aratura ogni pochi minuti per ammucchiare sulle sponde di un fosso tibie, crani e costole.
Il secondo è una sorta di horror classico a base di mietitrebbie assassine possedute dall’anima di un monaco ribelle condannato per eresia.

Sono il solito esagerato… In fondo siamo nella bassa pavese, non nel Maine!

Santa Cristina - Collegio

Santa Cristina - Collegio (rosone)

Il Collegio di cui mi parlano è il Collegio Germanico: un’abbazia che aveva già un paio di centinaia di anni quando il nostro Sigerico è passato di qui e, probabilmente, il motivo principale per cui l’arcivescovo inglese ha sostato proprio a Santa Cristina.
Oggi il collegio è un ristorante-birreria bavarese (l’anima germanica è rimasta, evidentemente) e, effettivamente, l’unica traccia del suo passato che si può vedere senza violare una proprietà privata è la bella bifora sul fronte del primo piano.

Altrettanto poco rimane dell’adiacente castello, le cui tracce sono leggibili giusto nell’imponenza delle murature della classica cascina in cui è stato inglobato e in qualche improbabile decorazione alle finestre.

Santa Cristina - Restauri Opinabili al castello

A Santa Cristina c’è anche un museo che mi sarebbe piaciuto visitare: il Museo contadino della Bassa Pavese.
Da sito dovrebbe essere visitabile il sabato dalle 9.30 alle 12.30, ma io l’ho trovato disperatamente chiuso, senza nessun cartello ad annunciarne gli orari di apertura.
Così, nel dubbio, prima di andare fino a lì dategli un colpo di telefono!