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Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano, Milano Romana

L’IMPERO COLPISCE ANCORA: PANEM ET CIRCENSEM

Parlare del Teatro e dell’Anfiteatro di Milano significa, prima di tutto, parlare di Alda Levi.

Tra le prime donne ad avere un ruolo nella Sovraintendenza dei Beni Culturali di cui fu, fra il 1925 ed il 1938, responsabile unica per il territorio lombardo e al suo lavoro si devono scoperte e riconoscimenti fondamentali soprattutto per quanto riguarda il passato romano della regione.
Nonostante un lavoro di primissimo livello – su reperti di quel glorioso passato imperiale che tanto piaceva al regime – quando LVI nel 1938 vara le leggi razziali è costretta a lasciare il lavoro.

Trascorre gli anni della guerra a Roma, sotto costante minaccia, vuoi perchè ebrea, vuoi perchè sposata con l’archeologo Vittorio Spinazzola, responsabile di fondamentali scoperte a Pompei ma cacciato dagli scavi nel 1923 perchè critico nei confronti di Mussolini.

Prima che LVI e la sua banda di criminali e lacchè la cacciassero, Alda Levi fu protagonista di alcuni straordinari ritrovamenti a Milano, tra cui nel 1929, durante la costruzione del palazzo della Borsa, i resti delle fondamenta del Teatro Romano e poi, nel 1931, i resti dell’anfiteatro.
Reintegrata nel 1945, Alda Levi muore nel 1950 a Roma, senza avere la possibilità di vedere musealizzate le due grandi scoperte milanesi che saranno aperte alla cittadinanza quasi mezzo secolo più tardi.

Muri radiali delle fondazioni

La storia del Museo Sensibile del Teatro Romano è quasi altrettanto interessante.
Sebbene solo nel ‘29, come sappiamo, sarebbe stato riconosciuto il teatro, sin dalla costruzione del proprio Palazzo, nel 1880, la famiglia Turati si rese conto di aver acquistato assieme al terreno una vera e propria miniera di statuaria romana.

Andrea Preti, il funzionario della Camera di Commercio che mi guida nel Museo, mi spiega che proprio in questi primi anni gran parte dei reperti più belli fu utilizzata dai Turati come moneta di scambio.

– Erano invitati a un matrimonio importante? – mi dice – Portavano in dono una bella statua. Dovevano ingraziarsi un cliente particolarmente facoltoso? Gli regalavano qualche moneta di età imperiale…

Insomma, dove non era arrivato il Barbarossa arrivò un approccio abbastanza libero alla conservazione del patrimonio.

Il Barbarossa, sì, che non può mai mancare nelle vicende milanesi.

Il teatro è stato probabilmente uno degli edifici più longevi della romanità milanese: eretto in età augustea, cessati gli spettacoli fu luogo di assemblea del Comune rimanendo il attività per un millennio buono.
Ma nel dodicesimo secolo Milano, nell’ambito delle lotte di potere che dilaniavano l’Italia settentrionale e Roma, attaccò e distrusse Lodi, fedelissima alleata dell imperatore.
Che al Barbarossa fregasse qualcosa di Lodi, sapendo che la raspadüra [https://mangiaregione.it/raspadura-lodigiana/] non l’avevano ancora inventata, lo credo poco. Ma l’orgoglio imperiale è quello che è e Federico non poteva lasciare impunita la provocazione.
E così nel 1162, dopo un assedio estenuante, Milano dovete aprire le sue porte alle truppe del Barbarossa che avevano l’ordine di radere al suolo La città non lasciando pietra su pietra. Vuoi per la particolare imponenza dell’edificio, vuoi perché ne conosceva l’uso come stava assembleare, Federico chiesa di dedicare particolare attenzione alla distruzione dell’Antico teatro di cui ogni traccia fu cancellata per oltre sette secoli.

Muri radiali delle fondamenta

Tra la distruzione del 1163 e i primi ritrovamenti del 1880, la zona ospitò chiese (San Vittore al Teatro), botteghe e case di umile abitazione, edifici che riutilizzarono gran parte delle superstiti pietre dell’alzato.
Ciò che vediamo oggi, in realtà, è ciò che i romani non potevano vedere: le fondamenta della cavea e di parte del grande muro scenico.

Il forno (panem et circensem)

L’allestimento, tuttavia, è pensato per riportare alla luce i fasti del teatro imperiale, portando i visitatori ad immergersi nella storia con tutti i sensi.
Questo è il significato di Museo Sensibile: un allestimento che coinvolge la vista (grazie alla splendida illuminazione delle rovine), l’udito (grazie alle guide, ovviamente, ma anche alle registrazioni di grandi del teatro che cercano di ricostruire la recitazione romana) e persino l’olfatto (ma qui lascio che siate voi a farvi condurre tra gli odori di umanità e i profumi di rosa e zafferano).

Muri delle fondazioni e passerella

Certo, io ho avuto la fortuna di essere da solo a visitare il teatro e ho potuto godermi in tutta tranquillità il racconto di Preti – che del museo è stato anche artefice.

Dopo una sala introduttiva che illustra nel dettaglio le tecniche costruttive romane, si entra nel vero e proprio museo dove una passerella in vetro e metallo consente di sorvolare i resti dell’edificio illuminati da luci drammatiche che aiutano ad immergersi nell’esperienza nascondendo il prosaico sfondo costituito dalle pareti dello scantinato.

A meno che non abbiate fatto le elementari negli anni 2000, è probabile che non abbiate mai saputo nulla di questo museo, che è tra i meglio nascosti di Milano.
Dalla sua apertura fino a pochi anni fa l’apertura del museo era garantita dalle guide dell’Università Cattolica ma, in tempi di spending review, sono stati radicalmente ridotti i fondi e ora il museo è visitabile solamente su prenotazione grazie al lavoro volontario di alcuni funzionari della Camera di Commercio (contattateli qui, è un’esperienza da non perdere).
In questa situazione, è chiaro, il museo ha orari limitati e non viene più di tanto pubblicizzato ma i volontari sono comunque in grado di garantire l’accesso al sito a centinaia di classi delle scuole elementari e medie delle province di Milano, Lodi e Monza e Brianza.

Colonne

Accanto a Palazzo Turati, nella sede della Borsa Valori, sono conservati ulteriori reperti del teatro,forse i più interessanti dal momneto che vi sono anche resti delle decorazioni musive del pavimento, ma non è possibile accedervi liberamente quindi, a malincuore, lasciamoci alle spalle Piazza Affari e andiamo verso Sud.

Poco più di un kilometro, che vale la pena di percorrere a piedi attraverso il suggestivo quartiere delle Cinque Vie. Questa è la distanza che separa il museo del Teatro dall’Antiquarium Alda Levi – Parco dell’Anfiteatro Romano. Poco più di un kilometro, in senso geografico, ma qualche secolo dal punto di vista museografico.

Ho lavorato in Corso Italia dal 2011 al 2015. Per arrivare in ufficio, quando il clima sconsigliava l’uso di Aiko, scendevo dal tram in Piazza della Resistenza Partigiana e percorrevo via Molino delle Armi a piedi.
Spesso mi capitava di buttare un occhio all’edificio sede dell’antiquarium (uno dei tanti ex conventi di cui è pieno il centro di Milano), perchè è anche sede di un teatro per l’infanzia cui probabilmente debbo il mio amore per la scena.

Vi mentirei se vi dicessi di essermi mai accorto della piccola targa che annuncia la presenza del museo e dei reperti. Solo le ricerche per il Motografo mi hanno portato, finalmente, a capire dove fosse l’ingresso e quali gli orari.

Mura radiali

E così un sabato mattina alle 12.30 mi presento sulla porta, la varco e mi guardo in giro spaesato.
Indicazioni? Figuriamoci, saremo mica dei Tedeschi che han bisogno le indicazioni. Noi Italiani preferiamo improvvisare. E, in effetti, improvvisando trovo il passaggio che conduce al parco e a ciò che resta dell’enorme arena milanese.

Mura radiali

Enorme,sì. Gli studiosi ritengono che il nostro fosse tra gli anfiteatri più grandi dell’impero, secondo solo al Colosseo e a quello di Capua.

Fa impressione pensare che l’area dell’anfiteatro, che oggi è considerata molto centrale, si trovasse al di là delle mura, fuori dall’abitato, appena a sud del Palazzo Imperiale.

I resti portati alla luce sono musealizzati in un parco che sarebbe tra i più belli della zona, se solo fosse più accessibile. I raggi delle fondamenta dell’ellisse dell’arena, sebbene recintati per proteggerli, dialogano con l’andamento dolcemente ondulato del terreno e con le piante – in fiore in questa mattinata di primavera – creando un ambiente sereno e rilassante.
Scatto qualche foto, leggo i cartelli esplicativi e cerco di ricostruire – in vano – nella mia mente l’effetto che poteva fare la mole dello stadio nella campagna milanese.

Parco dell'anfiteatro e chiesa dei Rumeni

Fiorellini

Torno nel chiostro dell’ex convento e trovo finalmente l’ingresso dell’antiquarium con i suoii due custodi.
Non mi piace attaccare il lavoro delle persone, che va sempre rispettato, quindi mi limiterò a dire che la sensazione era quella di essermi seduto al tavolo di un tipico ristorante ligure.
Chissenefrega, entro e inizio la mia visita.
L’antiquarium mi risulta aperto nel 2004 ma, in tutta onestà, l’allestimento sembra fatto secondo una logica di metà del ‘900. Accumuli di reperti in anonime teche di vetro e cartellini esplicativi poco o nulla esaustivi.
La collezione è piccola, ma il suo pezzo forte, la stele funeraria del gladiatore Urbico, vale da sola la visita (che per altro è gratuita).

Stele del gladiatore Urbico

A Urbico, inseguitore di prima posizione, di origine fiorentino, che combattè tredici volte, visse ventidue anni; Olimpia (sua) figlia che lasciò a cinque mesi, e la figlia Fortune(n)se, e la moglie Lauricia (dedicano), al marito che ha ben meritato, con cui visse sette anni. Ti avverto, chiunque tu sia che uccidi che hai vinto. I suoi tifosi terranno viva la sua memoria

Stele del gladiatore Urbico

Da un lato mi communovo – con quei 2000 anni di ritardo – per la famiglia del povero Urbico, dall’altro trovo affascinante che anche i gladiatori, gli schiavi come era probabilmente Urbico, avessero degli appassionati tifosi che ne terranno viva la memoria, proprio come i nostri pugili, motociclisti o piloti di F1.

Ma mentre penso tutto questo una voce alle mie spalle:

– Stiamo chiudendo!

Guardo l’ora: le 13.40. Il museo chiuderebbe alle 14.00, ma va bè…

– Sì, faccio una foto e ci sono.
– Sì, ma in fretta, per favore, che dobbiamo chiudere.

Odio che mi si metta ansia, ma capisco che il rispetto degli orari sia importante…
Mi affretto, scatto alla come viene ed esco.
Passo alla e appena varco la soglia la sento chiudersi alle mie spalle con tanto di quattro mandate di serratura, catenaccio e paletto.
Peccato che siano le 13.45, un abbondante quarto d’ora di anticipo sugli orari di chiusura del museo.

Il paragone tra i due musei non potrebbe essere più stridente.
Da utente posso dire che quasi sempre mi sono trovato meglio là dove a gestire l’accoglienza e le visite sono i volontari, ma da studioso non mi sfugge il problema.
Il volontariato è una nobilissima attività che troppo spesso funge da scusa per le istituzioni per non pagare i professionisti (le guide) o per giustificare chiusure inaspettate, orari di apertura improbabili o servizi ridotti all’osso.
E però, al tempo stesso, non capisco come si possa pensare di dotare un museo – un museo che dovrebbe essere un fiore all’occhiello di una città – di personale così vistosamente disinteressato (e per giunta scortese). Ci deve, mi ripeto, essere una virtuosa via di mezzo. Deve esistere il modo di selezionare del personale regolarmente assunto e pagato che sappia, allo stesso tempo, sviluppare un amore ed un legame con la propria istituzione, con il monumento, il museo, l’opera che protegge e divulga.

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Tutte le fotografie del Teatro Romano appaiono con l’autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali – Sovraintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Milano e non possono essere ulteriormente riprodotte.
Per tutte le altre foto vale come al solito la CC attribuzione, non commerciale, no opere derivate.

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IL CASTELLO SFORZESCO ED IL PARCO SEMPIONE

Il Palazzo Imperiale, il Circo, il Teatro Romano.
Il Coperto dei Figini, la Basilica di San Giovanni in Conca, la cerchia dei Navigli.
E poi ancora il convento di Garegnano e il Lazzaretto, le Terme antiche.

Sono decine gli edifici civili, religiosi e monumentali che Milano ha perso nei secoli sotto i colpi delle guerre o che ha sacrificato sull’altare della trasformazione urbana e della tensione al progresso.

Il Castello Sforzesco ha rischiato di dover essere incluso in questo elenco.

Originariamente chiamato Castello di Porta Giovia, fu voluto attorno alla metà del ‘300 da Galeazzo Visconti ed è stato spesso al centro di progetti di demolizione.
Già sotto la Repubblica Ambrosiana (1447) fu pesantemente danneggiato e solo l’insediamento del nuovo Duca Francesco Sforza potè la fortezza, trasformandola in un palazzo nobiliare.

Dopo un breve periodo di apertura alla città – simboleggiato da grandi bifore aperte nei muri esterni – il castello torna, sotto gli Sforza prima e poi sotto gli Spagnoli e gli Austriaci, a svolgere l’originale funzione di fortezza e poi di carcere e di caserma delle truppe occupanti, circondandosi sempre più di mura, torri e fossati inespugnabili e suscitando per lunghi secoli nel cuore dei Milanesi sentimenti di timore e di odio.

resti della ghirlanda

Già dopo l’assedio del 1796 c’è chi vuol radere al suolo l’ultimo avanzo dell’antica tirannide, racconta Gian Guido Belloni nel suo libro del ‘66 dedicato al castello, ma Napoleone ordina che sia rimesso in sesto in modo da poter sostenere l’eventuale reazione degli Asburgici.

Allontanato il rischio austriaco, però, è il gusto francesizzante della Repubblica Cisalpina – e dello stesso Napoleone ormai Re d’Italia – a far tremare il Castello.
Tra chi vuole trasformare la veccchia fortezza in un palazzo neoclassico con colonne doriche, rilievi e fregi e chi propone di demolire tutto, sono decine i progetti che interessano l’area.
Lo stesso Imperatore è indeciso. Salvare solo la Corte Ducale? Procedere ad una ristrutturazione radicale?

Alla fine i francesi combinarono relativamente poco.
Le fortificazioni a stella, risalenti al periodo spagnolo, cadono proprio in questo periodo (ne rimane solo qualche frammento nei pressi della porta di Santo Spirito), ma il resto della fortezza viene salvato. Più rilevante l’intervento sul resto del quartiere, con la realizzazione del Foro Bonaparte, dell’Arena Civica e dell’Arco della Pace in fondo a quella che, allora, era ancora una piazza d’armi.

rivellino di santo spirito

A Milano tornano gli Austriaci e, di nuovo, è il castello ad ospitare la guarnigione di occupazione.
Proprio con i cannoni che muniscono la fortezza il Maresciallo Josef Radetsky – quel porco – farà bombardare la città in rivolta durante le Cinque Giornate del ‘48.

E allora, scacciati gli occupanti, di nuovo prende piede l’idea di non lasciar pietra su pietra, caldeggiata da un Salvator Ligresti ottocentesco che si frega le mani al pensiero del bel quartierino di palazzi lussuosi che potrà tirare su in pieno centro.

torre sud dal rivellino di santo spirito

E invece no!
Grazie al provvido intervento di un gruppo di cittadini sensibili il nuovo governo decide di conservare il castello e di restaurarlo.
I lavori vengono affidati a Luca Beltrami che procede ad un intervento radicale.
Beltrami però deve scegliere a quale periodo storico riportare il castello.

rivellino di santo spirito

Il ‘300 Visconteo? Troppo sobrio. Va bene la medietas meneghina, ma non esageriamo!
Il ‘600 spagnolo con le sue grandiose fortificazioni a stella? A parte il lavoro improbo, ma ti pare che abbiamo cacciato gli Austriaci e ora celebriamo gli Spagnoli? Eddai, su…

E allora la scelta dovette per forza cadere sul periodo degli Sforza.

Beltrami evidentemente era un uomo coscenzioso al limite dell’ossessività.
Non gli bastava ridare lustro all’esistente, riaprendo i finestroni sul muro di cinta esterno e riportando alla luce gli affreschi e i decori delle magnifiche sale interne; volle anche ricostruire dalle fondamenta l’imponente torre centrale edificata dal Filarete a metà del ‘400 e crollata nel ‘500 a seguito dell’esplosione della santabarbara in essa contenuta.

Facciata sud ovest

Per progettare la nuova torre il Nostro non andò di fantasia nè si basò solo su esempi costruittivi coevi, ma volle andare a fondo cercando fonti di prima mano.
C’era una Madonna con Bambino, a Chiaravalle, in cui il castello si stagliava sullo sfondo; Beltrami partì da quel dipinto e da un antico affresco ritrovato nella Cascina Pozzobonelli per immaginare un manufatto quanto più possibile fedele alle forme quattrocentesche.

filarete

Certo, il bassorilievo di Umberto Primo stona un po’, ma non si poteva mica scontentare il committente, no?

La torre oggi è il punto di fuga del lunghissimo asse prospettico – parigino, per così dire – che parte da un angolo di piazza del Duomo e, superato il Castello, prosegue attraverso l’Arco della Pace e Corso Sempione e da lì, idealmente, verso la Francia napoleonica.

Varcato il portone che si apre nella torre, si accede al grande Cortile delle Armi.
Uno spazio enorme, rettangolare, ingentilito da aiuole di prato che in primavera diventano bianche di Margherite.

piazza d'armi

Nella Piazza d’armi hanno sede la raccolta delle stampe Bertarelli e, soprattutto, il nuovo Museo della Pietà Rondanini.

Io non ho ancora visitato il nuovo allestimento – creato in occasione dell’Expo – ma in compenso ho passato interi pomeriggi seduto nella Sala degli Scarlioni: una nicchia di pietra ed ulivo pensata dallo studio BBPR: in cui la splendida scultura risaltava in tutta la sua grandezza.

Già mi immagino il noto critico Marchese Piergiovanni Perfettini-Menafava alzare il suo ditino giudicante per lamentarsi del fatto che la Pietà Rondanini è incompiuta, non rifinita, che la Madonna è appena abbozzata, che ci sono pezzi spurii di anatomia che fanno capolino qua e là…
Eppure la potenza della scultura è anche nel suo essere incompiuta. Un’incopiutezza che sottolinea ed accentua la sofferenza del Cristo e di Maria. Una rappresentazione plastica del dolore resa vivissima dai segni del mazzuolo e dello scalpello, dalla superficie scabra del marmo.

Già che avete acquistato il biglietto per la Pietà, approfittatene per fare un giro in tutti i musei del Castello. Non tanto per le collezioni quanto per le sale maestose in cui spiccano interventi, tra gli altri, dell’onnipresente Leonardo.

torre di bona

Il Cortile delle Armi è chiuso in fondo da un fossato e da un muraglione con due aperture: da quella più a destra si raggiunge la deliziosa Corte Ducale: un ombroso cortiletto rinascimentale ornato da una vasca d’acqua fresca sulla cui sponda è piacevole sedersi a riposare e leggere nei pomeriggi estivi.

corte ducale e rocchetta

corte ducale

Dal passaggio di sinistra, invece, si accede alla Rocchetta: la parte più antica e fortificata del castello. Qui si rifugiavano i duchi in caso di assedio e qui veniva conservato il tesoro della casata.

rocchetta e torre di bona

Proprio qui la Duchessa Bona di Savoia (bel nome, comunque) stabiliì la sua residenza dopo l’omicidio del marito Galeazzo Maria Sforza per proteggere se stessa ed il figlio dalle mire del cognato Ludovico il Moro.

Tanto la Corte, sede anche del Museo Egizio di Milano è accogliente per il visitatore, tanto la Rocchetta è quasi repulsiva.

decoro dei portici della rocchetta

Nonostante il portico di archi a tutto sesto sia finemente decorato e le pareti interne mostrino ancora tracce di affreschi, il cortile ha un aspetto dimesso e quasi frusto e la gran parte dei turisti che lo attraversano passa senza quasi accorgersi della bellezza della struttura architettonica trecentesca ben conservata nonostante qualche inserimento abbastanza arbitrario del Beltrami.

biscione sulla porta nord est

Uscendo dal Castello da nord-ovest si arriva sull’ampia e polverosa Piazza del Cannone: una sorta di balcone affacciato sul grande parco e sull’Arco della Pace in fondo.

arco della pace e teatro continuo

Alla nostra sinistra il Palazzo dell’Arte – sede della Triennale, di uno dei teatri più belli di Milano e dei Bagni Misteriosi di De Chirico – e la Torre Branca: 109 metri di traliccio d’acciaio progettati da Giò Ponti come incredibile belvedere sulla città.

bagni misteriosi

torre branca

A destra, nascoste tra gli alberi del parco, l’Arena Civica e la biblioteca del parco, edificata su un’altura artificiale in finta roccia (il Monte Tordo).

Il progetto del parco, un tipico giardino all’inglese, è pensato per dialogare con il castello in modo onestamente antistorico. L’impostazione romantica dell’area, infatti, risponde ad un esigenza scenica, entrando in relazione con l’idea neo-medioevale di castello, fatta di torri, merli e fantasmi, più che con l’impianto rinascimentale del castello stesso, ma l’effetto rimane piacevole.

Il tracciato circonvoluto dei sentieri del parco, inoltre, contrasta volutamente con l’asse prospettico napoleonico Cordusio – Castello – Arco della Pace – Sempione di cui abbiamo parlato, spezzandone la rigidità con un inserto naturalistico riposante.

Con la prospettiva, però, gioca anche l’installazione, recentemente ricostruita, del Teatro Continuo di Alberto Burri: un palcoscenico in cemento, permanente, finacheggiato da quinte che incorniciano i due monumenti – il Castello e l’arco – rendendoli fondali permanenti di una rappresentazione continua, appunto, e spontanea.

teatro continuo e castello

Subito accanto l’Accumulazione Musicale di Arman, meglio conosciuta come l’Anfiteatro, storico luogo di ritrovo di percussionisti più o meno bravi.

Tra pratoni soleggiati, panchine in ombra, campi da basket e percorsi vita il Parco Sempione è la degna conclusione di qualsiasi giro nel centro di Milano, ma prima di lasciarvi qui a poltrire vorrei mostrarvi una chicca nascosta tra questi alberi.

lago e castello

Proprio sopra il laghetto, tra l’anfiteatro e il Bar Bianco, c’è un ponticello di metallo ornato da quattro sirene di ghisa armate di remo.

ghisini

Il ponte delle Sirenette – note come le Sorelle Ghisini – è stato il primo ponte interamente metallico d’Italia e ha fatto bella mostra di sè sul Naviglio di San Damiano dal 1842 sino al 1929 quando fu posta in atto la sciagurata decisione di interrare la fossa interna dei Navigli.

ponte delle sirenette

Vuoi perchè il ponticello è sempre stato luogo di ritrovo degli innamorati, vuoi perchè il suo stile si sposava bene con il nuovo parco, il bel ponticello ottocentesco non ha fatto la fine di tutti i suoi simili ma è stato trasferito qui, dove le quattro Sorelle Ghisini continuano a scrutare nella nebbia vegliando sui passanti.

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LA MACCHINA DEL TEMPO (LA CA’ GRANDA)

Vicolo Santa Caterina sembra solamente una stradicciola pedonale stretta e umida, dove non batte mai il sole, ma per me oggi è una sorta di macchina del tempo.

Dalla parte di Piazza San Nazzaro in Brolo è il 2017, la primavera sembra essere finalmente iniziata e io sono un Motografo trentacinquenne.
Ma appena superato l’angolo, dove la strada rinizia ad allargarsi, è l’inizio di Aprile del 2006, il tempo fa abbastanza schifo e io, ventiquattrenne, sto andando a discutere la tesi.

Non sono diventato completamente pazzo, eh, ma la Ca’ Granda – la nostra meta di oggi -.ospita l’Università degli Studi e l’ultima volta che ho trascorso più di quindici minuti al suo interno è stato il giorno della mia laurea.

Ci sono diversi modi per raggiungere la Ca’ Granda, ma Vicolo Santa Caterina è il mio preferito. Un po’ per la stradina in sè, che è molto caratteristica, ma soprattutto perchè entrando in Largo Richini da qui si gode di una visione di scorcio su tutta la facciata rinascimentale, ritmata da archi e fregi, con il portone che immette nella corte d’onore sullo sfondo.

0015 - Fregio della facciata seicentesca

Il nome di questo splendido edificio è, anche per noi milanesi, fonte di confusione.

Non è che sei confuso tu, Motografo? L’è la Statale, el sann tucc…

No, spiego. Quella che tutti chiamiamo La Statale o Festa del Perdono (rispettivamente a causa della funzione e della via in cui si trova) è in realtà la Ca’ Granda (casa grande), prima sede dell’Ospedale Maggiore di Milano voluto dal Duca Francesco Sforza a metà del quindicesimo secolo.
Ma attenzione, Ca’ Granda è anche una fermata della metropolitana nella periferia nord, quasi al confine con Cinisello Balsamo. Questo perché quando nel ‘39 fu inaugurato l’Ospedale Niguarda, la piazza e la via prospicenti all’ingresso furono chiamate Piazza Ospedale Maggiore e Via Ca’ Granda.

Ma che?!?

‘Spetta, non ho mica finito. Il Niguarda è in Piazza Ospedale Maggiore, sì, ma l’Ospedale Maggiore – Ca’ Granda è in realtà il Policlinico, che si trova in via Francesco Sforza. Molto vicino alla Statale, ma non nella Ca’ Granda stessa.

Vi pare complesso? Ecco, pensate che se per caso voleste andare alla stazione del Metrò di Ca’ Granda dovreste prendere la linea 5, che però è la quarta linea di Milano. E che la 4 hanno iniziato a costruirla ben dopo l’inaugurazione della 5.

Se avete mal di testa trovate l’OKI sulla prima mensola dell’armadietto del bagno.

0017 - Le mani nei capelli (fregio della facciata seicentesca)

Bene, mentre vi fa effetto il ketoprofene, parliamo della Ca’ Granda quella vera.
A Milano, nei secoli, erano sorte decine di istituzioni assistenziali. Ospizi per i poveri, per gli orfani, per i malati, i pazzi, i vecchi… Non ci si capiva nulla (nemmeno allora), e l’arcivescovo Rampini decise, nel 1448, di emanare una sorta di legislazione per coordinare tutte le iniziative.
Nell’ambito di questa riorganizzazione, ormai nel ‘56, il Duca Francesco I Sforza diede l’avvio alla costruzione dell’Ospedale Maggiore chiamando a dirigere i lavori Antonio Averluino, meglio noto come Il Filarete.

Questi ebbe l’idea di realizzare un edificio quadrato diviso in quattro cortili uguali da una crociera: quattro corsie disposte a croce in cui trovavano posto i letti dei malati.
Presto Filarete lasciò i lavori, sostituito da Guiniforte Solari, cui probabilmente di deve un tentativo di armonizzare il gusto fiorentino di Filarete con quello tardogotico dei Milanesi inserendo nella facciata le meravigliose bifore a sesto acuto con i loro elaboratissimi fregi di terracotta.

0002 - Putto (facciata del cortile d'onore)

Entrando nell’edificio, come quando ero studente, mi dirigo subito nella parte più antica dell’università entrando nel chiostro di filosofia.
Che in realtà si chiama cortile della ghiacciaia.

0006 - Cortile Ghiacciaia

I bombardamenti del ‘43 l’hanno in gran parte distrutto e in fase di restauro si è preferito completare le parti mancanti con una struttura moderna, ma sui lati nord – quello da cui si entra – ed ovest l’architettura originaria rimane leggibile.
Al centro c’è una specie di cisterna – oggi usata come lucernaio della biblioteca di filosofia – che un tempo era la ghiacciaia dove veniva immagazzinata la neve per conservare gli alimenti deperibili.

0008 - Cortile Ghiacciaia

Oggi come dieci anni fa il cortile è il meno bello e il più frequentato dell’ateneo. Il tasso di fuoricorso è sempre elevatissimo e sono abbastanza certo di aver riconosciuto qualcuno dei frequentatori abituali, solo poco più incanutito.

Essendo il più popolato dei chiostri, qui succede sempre qualcosa. Giuro che una volta ho assistito a un litigio furioso, con tanto di spintoni e vaffanculi, tra un sostenitore delle teorie aristoteliche e un platonico osservante.

Come dicevo, non ho mai amato più di tanto la ghiacciaia. Ma attraversando uno dei bracci della crociera compare il suo gemello: il cortile della legnaia (chiostro di storia, per noi altri), ben più piacevole per aspetto e atmosfera.

0004 - Cortile Legnaia

Anche la legnaia è stata pesantemente colpita dalle bombe del ‘43, ma il restauro ha permesso di riportarla quasi allo stato originale.

La biblioteca di storia, che prende luce dalle pareti del pozzo centrale, è una delle meglio organizzate dell’intero ateneo.

Non ho mai trovato una spiegazione razionale, ma la qualità della luce cambia completamente tra un cortile e l’altro. Quella della legnaia è del tutto diversa da quella della ghiacciaia, nonostante i due cortili siano orientati nello stesso identico modo.
È una luce più calda, più dolce. I colori sembrano più vividi,

Ma il mio preferito dei cortili del Filarete è quello della farmacia. Gemello nord-occidentale della giacciaia, è stato sostanzialmente risparmiato dai bombardamenti e mantiene quasi intatta la forma assunta all’inizio del ‘500.

0020 - Cortile Farmacia

Il cosiddetto chiostro di giurisprudenza, in realtà, è il meno frequentato dell’università e si trova quasi sempre un posto per sedersi a leggere o a chiaccherare sui muretti del portico.
Se la legnaia è misteriosamente luminosa e solare, la farmacia ha, per motivi altrettanto inspiegabili un microclima più lombardo. È sempre fresca e ombreggiata, ma tendenzialmente molto umida.

0019 - La Velasca dalla Farmacia

Dissolvenza al nero.
Di colpo è il 2002. Sto girando da quaranta minuti tra un dipartimento di giurisprudenza e l’altro perchè un’amica mi ha chiesto di consegnare un documento per suo conto, ma non riesco a capire dove andare.

A un certo punto mi rendo conto che quello che si vede dalla finestra dell’ufficio non è il cortile della farmacia, bensì quello che da allora avrei chiamato il chiostro fantasma.

0023 - Cortile dei Bagni

Perfettamente conservato e risparmiato dalle bombe, il chiostro fantasma è stato lungamente il mio cruccio. Ero certo che esistesse. Del resto la pianta della parte vecchia dell’università è chiaramente un quadrato, circondato in parte dal porticato dell’infermeria, ma nessuno sembrava sapere come diavolo arrivarci.

Dopo quel fugace incontro, dall’alto di un ufficio dove non sarei mai più tornato, ho spesso cercato di trovare un accesso al chiostro fantasma, ma senza risultati.

Dalla farmacia non si passa; dal porticato, apparentemente, nemmeno.
Ora, dovete sapere che ai tempi la facoltà di giurisprudenza conduceva una guerra silenziosa contro il resto del mondo per accaparrarsi spazi e risorse.
Le biblioteche di legge – tra cui la splendida crociera quattrocentesca – erano blindate e inaccessibili agli studenti di altre facoltà; due delle tre aule grandi erano riservate alle sole lezioni di diritto e la presenza di studenti di altre materie nei pressi dei dipartimenti di diritto era tacitamente scoraggiata. Quindi non è che avessi tante occasioni per compiere le mie esplorazioni.

Ma oggi è tutto diverso. Io sono cresciuto e non ho più nessuna soggezione. Inoltre per puro caso capito in Statale durante un evento di orientamento proprio per gli studenti di diritto. Una delle porte dei dipartimenti è aperta. Sbircio con la coda dell’occhio e…

Cacchio, eccolo lì.

0022 - Cortile dei Bagni

Certo, non riesco comunque ad entrare – una porta di vetro chiusa a chiave me lo impedisce – ma finalmente ho ritrovato quello che scopro chiamarsi cortile dei bagni.

Finalmente la coltre di omertà è sollevata e ho potuto fare luce su uno dei segreti meglio celati dell’ateneo.

I WANT TO BELIEVE!

Il grande cortile del Richini, seicentesco, è il cortile d’onore dell’ospedale e, oggi, l’accesso principale all’Università.

0010 - Cortile d'Onore

Ogni ateneo ha le sue superstizioni e le sue regole non scritte. La nostra riguarda l’aiuola del cortile d’onore.
Chi dovesse calpestarne l’erba prima di laurearsi, si dice, potrebbe anche fare a meno di proseguire negli studi, che tanto non riuscirà mai a terminarli.
In compenso il giorno della proclamazione il laureato deve (nonostante il parere contrario del rettore) levarsi le scarpe e saltare la siepe, per correre scalzo nell’erbetta morbida.

0012 - Fregio del cortile d'onore dalla balconata della sala lauree di medicina

Un trucco di pochi? Entrando nell’ala nuova (sulla sinistra del cortile) salite subito le scalette alla vostra destra cercando la sala lauree di medicina. Da lì potrete uscire sulla balconata, l’unica accessibile al pubblico, che si affaccia sul cortile dominandolo. E nonostante ci sia sempre qualche furgoncino posteggiato, qualche transenna, qualche operaio al lavoro, la vista è veramente spettacolare.

0011 - Cortile d'Onore

L’ala moderna – setteentesca – è in gran parte rifatta negli anni ‘50 e non è che ci sia molto da vedere, ma per me mettere piede nel coridoio dell’aula magna è stato un vero tuffo nel passato.
Alla mia destra il bel cortile delle balie passa inosservato rispetto alla meraviglia che ho davanti.

È esattamente come mi ricordavo!

0014 - Il corridoio dell'aula magna e i militanti di LC

La base delle scale delle aule a gradoni è l’habitat naturale di due splendidi esemplari – un maschio e una femmina – di militante di Lotta Comunista.
Fino agli anni ‘70 erano piuttosto comuni, ma oggi è quasi impossibile vederne uno fuori dai musei. E invece qui ce ne sono ben due.

Io mi sin sempre definito un socialdemocratico del cazzo*. Un tempo ci litigavo accusandoli di essere i testimoni di Geova del movimento; oggi ci ho discusso perchè li ho accusati di guardare l’attualità secondo una prospettiva che era già vecchia nel ‘63.
Ma hanno vinto loro rispondendomi: se tu sei un democratico la tua prospettiva è vecchia di 2.300 anni. Aggornati tu, compagno!

Vorrei chiudere con questa frase, ma mi corre l’obbligo di dirvi che c’è ancora qualcuno in grado di batterli i Lottatori….

0026 - Ma che davero

*= Il socialdemocratico del cazzo è una creatura nota per cambiare aspetto a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Da destra (chessò, da un circolo del PD a maggioranza renziana) sembra un passatista legato a concetti novecenteschi, presumibilmente nostalgico di una URSS pre-glasnost. Ma per la particolare conformazione dei suoi occhi, il Militante di LC vedrà, invece, un traditore della classe, un nemico del popolo ultracapitalista…

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano, Speciale Navigli di Milano

SAN CRISTOFORO SUL NAVIGLIO

Due volte l’anno, all’inizio dell’inverno e a primavera, poco prima che la stagione agricola riprenda in tutto il suo fervore, i navigli vengono prosciugati.

I letti dei canali sono tristemente vuoti. La poca acqua che rimane negli avvallamenti del fondale spesso ghiaccia. Altrove il pur timido sole secca il fango accumulato trasformandolo in una sorta di asfalto polveroso.

Lavatoio di San Cristoforo 2

Ovviamente non mancano gli imbecilli che scambiano il canale vuoto per un enorme cestino dell’immondizia, dando nuovi argomenti ai geniacci che sostengono che sarebbe meglio chiuderli del tutto, i navigli, che tanto sono una sorta di discarica a cielo aperto.

Naviglio grande - ghiaccio

Ma questi tristi periodi di asciutta – fondamentali per la manutenzione di un sistema delicato come quello dei canali navigabili della Lombardia – hanno una fine.
Non pretendo che mi capiate, ma per me è una festa quando vedo l’acqua del Ticino tornare a scorrere nell’alveo del Naviglio Grande.

E quando il Naviglio Grande torna a riempirsi, la Chiesetta di San Cristoforo torna a specchiarsi nelle sue acque, come è sempre stato.
E il fatto che San Cristoforo, il gigantesco traghettatore del Bambin Gesù, si specchi nelle acque di un canale mi è sempre parso simbolicamente perfetto.

La chiesa ha una forma bizzarra, qualcuno potrebbe addirittura definirla sgraziata.
Il colmo del tetto è completamente disassato, la facciata sembra divisa in due parti senza alcuna simmetria. Anche all’interno sembra quasi che convivano due chiese diverse: una più scarna e povera ed una più ricca e in un certo modo fastosa.
Sembra che convivano due chiese per un semplice motivo: sono effettivamente due chiese unite tra loro.

Chiesa di San Cristoforo sul Naviglio

Della prima, a sinistra per chi guarda la facciata, si ha traccia certa almeno dal 1192, ma qualcuno ipotizza addirittura che sia stata edificata laddove sorgeva un tempio dedicato ad Ercole.
Viene rimaneggiata nel ‘300, quando ad essa viene aggregato un alloggio per i Pellegrini diretti a Roma.

Si tratta di una semplicissima costruzione romanica. Un edificio a capanna in mattoni cotti. Non troppo alta, all’interno è una semplicissima aula con una copertura di travi di legno.
Solo il portale, un’aggiunta trecentesca con uno splendido rosone in cotto, impreziosisce la facciata segnando immediatamente la differenza tra la chiesa e una qualsiasi casa coeva.

Portale

Ai primissimi anni del ‘400 risale, invece, la parte destra della chiesa. La Cappella Ducale, originariamente dedicata a Giovanni Battista, Cristina e Giacomo, oltre che a Cristoforo, è di tutt’altro genere.

Sebbene sia anch’essa una costruzione di piccole dimensioni, ha un’architettura più ambiziosa. Più stretta della sorella maggiore, si sviluppa maggiormente in altezza, con una forma resa sapientemente slanciata grazie al gioco delle proporzioni.

Intonacata ed affrescata all’interno e all’esterno – ma di questo vediamo solo tracce frammentarie – è impreziosita anche da dettagli architettonici come lesene, monofore e finestrelle circolari che ne rischiarano l’interno.
Le colonnine che reggono le tre croci sul frontone e il campanile – così tipicamente milanese – ne caratterizzano profondamente la shilouette e non esiste milanese degno di questo nome che non la riconosca al primo colpo d’occhio.

Per oltre duecento anni le due chiese sono rimaste separate.
Una convivenza, immagino, semplificata dalla diversa destinazione d’uso.

Vetrata

Pubblica – nel senso di accessibile a tutti i fedeli – quella più antica. Dedicata al servizio religioso per i pellegrini che alloggiavano nell’attiguo ostello e per i pochi abitanti di quella frazione rurale della città – le cui mura erano distanti almeno un kilometro.
Privatissima, riservata alle celebrazioni della famiglia ducale l’altra.

Poi, nel 1625, si è deciso di unificare le due strutture.
Pochissimi gli interventi di modifica: una pezza nella facciata della chiesa antica, l’apertura di un paio di archi nella parete divisoria e un nuovo tetto.

Statua di San Cristoforo

Immagino lo stupore dei fedeli durante la prima messa nella nuova chiesa. La meraviglia, forse, per l’eleganza e la bellezza della cappella ducale, paragonata alla rigorosa semplicità della severa struttura cui erano abituati.
Immagino gli umarell di allora discutere sulla scelta di colmare la distanza tra i colmi dei due tetti con un’aggiunta di mattoni, le pie donne inginocchiate davanti alla statua del santo – nuova di pacca per loro anche se vecchia di due secoli.
Mi piace immaginare anche il parroco un po’ indeciso. Quale altare sarebbe stato quello primario?
L’antico, che fronteggia il portale più bello e più grande, o quello nuovo, più ricco e moderno?

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo. Il titolo di questa rubrica, stavolta, ha ancora più senso per me.
Fino ad oggi vi ho parlato di luoghi che amo, ma che non sono il mio paesaggio quotidiano.
Da Sant’Ambrogio passo di rado e ancor meno spesso attraverso le belle terre agricole del Parco Sud.
San Cristoforo, invece, è proprio dietro casa mia.
Vedo il suo campanile dal Ponte di Santa Rita ogni mattina andando in ufficio.
A pochi passi da qui sorgeva il primo studio di registrazione in cui abbia mai messo piede.
Ogni volta che esco in barca con la Canottieri Milano passo sotto al suo ponticello pedonale.
Qui, per aggiungere il carico da undici, si sono sposati i miei genitori.

Chiesa di San Cristoforo al Naviglio - Stemma Visconteo sulla facciata della Cappella Ducale

Insomma: è solo una chiesetta. Piccola, sgraziata, relativamente povera di opere d’arte e di elementi di interesse.
Ma per quanto mi riguarda, questa chiesetta è un po’ il simbolo della città. Più del Duomo, del castello o della Torre Velasca.

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, milano

COLTIVARE MILANO

Il cielo di Marzo è terso, inondato di una luce tutta particolare.
L’aria inizia a scaldarsi e le gemme inverdiscono sui rami degli alberi.

Nei campi ferve l’attività.
È il momento di rivoltare i sovesci, di pulire i fossi, di spaccare le zolle, di concimare il terreno, di rifare gli arginelli e di spianare il terreno della risaia.
Il ritmo della terra e delle stagioni guida la vita da queste parti.

Che meraviglia, direte, un angolo di paradiso lontano mille miglia dalla grande città e dalla sua frenesia…

E invece no. Qui nei campi si arriva con la metropolitana e basta un biglietto urbano.

Già li vedo gli scettici che si alzano e se ne vanno dandomi pure del pallista, ma il fatto è che circa il 15% del territorio del Comune di Milano è Superficie Agricola Utilizzata (SAU) e sono poco meno di 100 le aziende agricole attive in città, la metà delle quali ha una superficie totale superiore ai 10 ettari*.

Per darvi un’idea Milano è il 50° comune lombardo (su oltre 1500) per estensione coltivata. Ovviamente questo non significa che il milanese medio abbia il viso cotto dal sole, il cappello di paglia sempre in testa e vada a fare l’aperitivo il giovedì sera posteggiando il Fiat 115/90 in doppia fila; ma è comunque abbastanza per dire che Milano è anche un comune agricolo.

È nella parte sud di Milano, come appare evidente anche solo guardando distrattamente una mappa, che si trova la maggior parte delle terre agricole cittandine.
Sono le estreme propaggini del Parco Agricolo Sud Milano: una sorta di mezzaluna verde che abbraccia la periferia meridionale.

0001 - Parco agricolo sud Milano

Da Est, dove il parco Forlanini si intreccia senza soluzione di continuità con le terre agricole di Monluè e di Chiaravalle fino ad Ovest, dove l’asse di penetrazione del Naviglio e di Via Lorenteggio separa di pochi kilometri l’Ambito delle Risaie dietro alla Barona da quello delle terre di Assiano, che separa il Quartiere degli Olmi e Muggiano da Settimo Milanese.

In mezzo c’è il grande triangolo verde del parco del Ticinello, tra Via Ripamonti e il Naviglio Pavese.

Un triangolo il cui vertice Nord, che dista solo tre kilometri da PIazza del Duomo, è occupato dalla Cascina Campazzo.

Per arrivarci bisogna lasciare la moto ai confini del parco e incamminarsi sotto gli alti pioppi che ne ombreggiano le stradine.
In alternativa la stazione del Metrò di Abbiategrasso è a due passi.

0004 - Quartiere SantAmbrogio

Sono più di cento le splendide vacche Frisone che vivono nelle stalle dell’azienda.
Il loro latte viene raccolto quotidianamente dal consorzio Latte Milano, ma sono molti gli abitanti del quartiere che arrivano nella grande corte con le loro bottiglie per riempirle direttamente alla fonte.
Non mungono le mucche, ovviamente. Sulla parete della stalla c’è una bella macchinetta a monetine.

La cascina risale probabilmente al XV° secolo e ha visto alternarsi grande prosperità e declino molte volte.
Dagli anni ‘70 era entrata nell’orbita dell’impero immobiliare Ligresti, che ha tentato per anni di svincolare l’area dal Parco Sud per poterci edificare.
La lotta degli agricoltori è durata molti anni e soltanto il declino delle imprese di Ligresti ed il conseguente ritorno della proprietà della cascina Comune hanno reso la situazione dell’azienda e delle sue terre un po’ più stabile.

L’aia pavimentata in cemento e la presenza di alcuni fabbricati ormai inagibili, recintati con la rete da cantieri, non danno alla Campazzo la tipica apparenza da agriturismo pettinato che popola le fantasie bucoliche dei cittadini che vagheggiano il ritorno alla terra, ma quello che si vede è la verità della campagna.
Che è fatta della meraviglia della luce che in primavera inonda i prati dove si coltiva il foraggio e delle lepri che li tagliano all’improvviso, fuggendo dai cani a passeggio sui sentieri del parco. Ma è fatta anche di lavoro, di fatica, di freddo quando gela e di caldo torrido in estate. E di odore, ovviamente. O credevate che centotrenta mucche profumassero di zagara e di rosa?

Il quartiere Gratosoglio è la classica periferia popolare. È stato costruito in tutta fretta all’inizio degli anni ‘60 attorno ad un piccolo villaggio rurale. Uno dei primi quartieri in cui il prefabbricato è stato usato in modo sistematico e intensivo.
È anche uno degli archetipi della periferia pesa a Milano. Una fama conquistata nei tardi anni ‘70, quando era più facile trovare un grammo di eroina che un litro di latte, e mantenuta ancora oggi.

Il quartiere è stato in gran parte riqualificato e, sebbene rimanga una zona ultrapopolare con tutte le criticità che ne conseguono, non è certo un ghetto come piace dipingerlo a certi giornalisti. Ma provate voi a dire “sono del Gratosoglio” a un milanese bene e scorgerete nei suoi occhi un misto di stupore per il fatto che non gli stiate puntando un coltello alla gola e rispetto per essere sopravvissuti alla guerra che – immagina – si combatta ogni giorno sotto casa vostra.

Hai finito di divagare? Non stavamo parlando di cascine? Che ci frega delle case popolari?!?

Ecco… Sempre i soliti impazienti.

Il Gratosoglio visto tra i campi

Il Gratosoglio, dicevo, è l’emblema della periferia dura, ma è anche un quartiere completamente circondato dai campi.
Dalla Cascina Campazzo si prende viale Missaglia verso Rozzano e poi a destra in via Boifava e poi a sinistra, verso Pavia. Alla nostra destra il Naviglio Pavese, a sinistra sfilano vecchie case di ringhiera dietro cui si intravedono i vecchi impianti della riseria Gariboldi (quella del riso Flora) ormai dismessi.

Ancora un paio di centinaia di metri ci separano dalla Cascina Basmetto.
La nostra meta occupa il vertice Ovest di questo triangolo agricolo ed è proprio alle spalle delle case popolari del Gratosoglio.

Cavallo Emo

Niente mucche, qui. Il prodotto principale dell’azienda è il riso Carnaroli coltivato nelle risaie attorno alla cascina. Gli appassionati del kilometro zero non possono chiedere di meglio.
Inoltre la cascina alleva un piccolo gruppo di bellissimi cavallini che pascolano nei dintorni.

L'ingresso dei cavalli - 2

Come la Campazzo, la Cascina Basmetto è una struttura produttiva, non ricettiva, ma personalmente la trovo più suggestiva.
Si tratta di una classica cascina a corte chiusa in cui la casa padronale domina l’aia con il suo caratteristico portico ornato da un glicine enorme.

Stalla

La grande stalla in fondo all’aia, oggi vuota, ricorda quando la cascina allevava mucche da latte. Il grande padiglione ombroso si apre sulle risaie dell’azienda e sul sentiero – recentemente risistemato proprio dai proprietari della cascina – che attraversa lo scenario bucolico sino ad un ponticello sul Lambro Meridionale da cui si raggiungono, in pochi passi, i palazzi popolari di Via Baroni.

La casa dei miei sogni

Fa caldo, vero? Avete la gola secca, vero? Prima di proseguire per la prossima tappa del nostro giro si potrebbe fare una piccola deviazione.
Torniamo verso Milano lungo il Naviglio e fermiamo la moto all’altezza del ponticello della Conca Fallata.
Siccome è un senso unico lo attraverseremo a piedi, vero?
Benissimo, fate ancora una decina di metri in via Boffalora dove trovate l’omonimo Birrificio.
Piccolo produttore artigianale con poche pretese, per conto mio ha l’indubbio merito di produrre una Munchen Helles anzichè le ributtanti IPA al retrogusto di totano candito che vanno tanto di moda oggigiorno!

Ripresa la moto bisogna tornare su Viale dei Missaglia e poi seguire la tortuosa stradina che attraversa i campi chiamata Via Selvanesco.
Selvanesco è una strada stretta e poco trafficata costeggiata dai fossi. Invoglia forse a correre un po’ più di quanto i limiti consentirebbero, ma bisogna fare attenzione, perchè il senso unico di questa strada non vale per i mezzi agricoli e non è il caso di uscire a tutta da una curva cieca solo per scoprire che c’è una mietitrebbia che arriva nella direzione opposta.

Lungo la strada sfiliamo davanti al ristorante Al Garghet, noto per la sua cotoletta, ottima sia nella versione più tradizionale cul maneg che in quella più sottile detta uregia d’elefante.
Asciugatevi la bava, che non è questo il posto dove ci fermeremo a mangiare.

Vacche 2

Cascina Gaggioli – il vertice esd del nostro triangolo – durante i finesettimana primaverili è presa d’assalto da un’orda pacifica di buongustai.
La pregiata carne delle vacche di razza Limousine che si può comprare ogni giorno nella macelleria dell’azienda, nel weekend può essere cucinata direttamente sulle grandi griglie a disposizione nell’aia della cascina.

L’entusiasmo dei bambini che sciamano nella stalla dei vitelli e la brezza che si alza dai campi facendo frusciare il granturco e le foglie dei pioppi ripagheranno l’inevitabile coda che dovrete fare per poter grigliare la vostra meritata porzione di carne.

Griglia

Sembra veramente un altro mondo. Se non ci fossero le torri di Ligresti (ancora lui) che si stagliano minacciose all’orizzonte uno potrebbe pensare di essere dalle parti di Crema o di Mantova.

Vacche

Certo, i più sensibili potranno trovare un po’ inquietante mangiare costate e puntine sotto gli occhi delle mansuete vacche, ma onestamente non sembra che loro se ne facciano un grosso problema.

Potremmo andare avanti un giorno intero di cascina in cascina, di azienda in azienda. Potremmo spostarci in Barona – un altro quartiere popolare peso – per visitare l’azienda Battivacco, o spingerci fino a Trenno per visitare la Cascina Campi con i suoi cavalli da ippoterapia.
Ma io ho un’idea migliore.

Puntiamo dritti verso il centro.
Molto verso il centro. Superiamo la circonvallazione, la cerchia dei bastioni e pure quella dei navigli.
Dobbiamo arrivare a Brera.
Superiamo i ristoranti per turisti, i bar degli artisti e le cartomanti.
Varchiamo il portone dell’Accademia e attraversiamo la penombra dei suoi corridoi. Sul retro del palazzo piermariniano si apre quella che – a tutti gli effetti – è la più centrale delle aree agricole di Milano: l’orto botanico.

Ortaccademia

L’orto è stato creato come pertinenza del convento degli Umiliati già nel’500 e ha continuato a prosperare quando il palazzo è entrato nelle mani dei Gesuiti fino ad essere ampliato nel tardo ‘700, quando Maria Teresa d’Austria istituì l’accademia e l’osservatorio astronomico.

Dopo un lungo periodo di abbandono l’orto è stato restaurato e, dall’inizio degli anni 2000 è finalmente aperto al pubblico e rappresenta un’oasi di silenzio e verde in uno dei quartieri più caotici e affollati di Milano.

Cavolfiore romanesco

Bulbi fioriti e alberi esotici – la principale attrattiva dell’Orto Botanico – crescono fianco a fianco con ogni tipo di ortaggi e con un’impressionante collezione di erbe aromatiche ed officinali.

Amo le erbe aromatiche, ve l’ho mai detto? Sul mio piccolo balconcino coltivo quattro o cinque varietà di menta, il basilico, l’origano ed il timo e solo i limiti di spazio mi impediscono di aggiungere esemplari alla mia collezione.
Perchè ve lo dico? Perchè io mi fermo qui, ad osservare le differenze tra le mille tipologie di salvia coltivate nelle aiole.

Ci rivediamo qui giovedì prossimo?

*= Si tratta di dati del 2010. Negli ultimi anni diverse cascine abbandonate sono state recuperate e in molti terreni è ripresa la coltivazione, quindi suppongo che il prossimo censimento segnerà una crescita.

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AMBROGIO E IL DIAVOLO

Ambrogio di Treviri, dovete sapere, era un bel peperino.
Studente modello, implacabile avvocato e poi governatore della Provincia di Milano.
Uomo di fede e di corte – nel quarto secolo Milano era sede imperiale – rispettato e apprezzato per la diplomazia e la fermezza che utilizzava nel tentare di dirimere le controversie tra Ariani e Cattolici che dilaniavano la città.
Per quanto credente fosse, tuttavia, Ambrogio non ci pensava nemmeno a diventare sacerdote.
Ma a Milano c’era un gran casino in quegli anni.
Dopo la morte del vescovo Aussenzio, Cattolici e Ariani si scontravano quotidianamente per sostenere il proprio candidato alla successione.

0004 - Facciata

Un giorno, si narra, un bambino acclamò Ambrogio vescovo durante la messa, e il popolo tutto gli andò dietro.
Ma lui non ne voleva sapere nulla.
Anzi, per dimostrare di non essere il sant’uomo che dicevano tutti ordinò di torturare un po’ di detenuti.
Niente, il popolo si ostinava a volerlo vescovo.
Stavano sotto le sue finestre giorno e notte acclamandolo a gran voce.

Allora Ambrogio chiamò un sensale e si fece inviare delle prostitute a casa, assicurandosi di essere beccato in flagrante.
Niente da fare. Il popolo non cedeva, voleva Ambrogio vescovo.
Anzi, per loro era pure meglio che si fosse tolto gli ultimi sfizi, che da Vescovo avrebbe dovuto mantenersi casto.

– Ma io non ho mica studiato teologia. Anzi, io non sono nemmeno battezzato!
– Ai tempi il battesimo si prendeva da adulti – Fregati! Come volete che faccia il vescovo se non sono nemmeno battezzato?
– Oh signur, Ambroeus… Muchela! Guarda, lì c’è una bella chiesa nuova di pacca – grazie a Costantino e alla sua liberalizzazione del Cristianesimo, ormai c’era una chiesa ad ogni angolo di strada – Adesso entri in quella chiesa e ti fai battezzare! Poi ciapi Mitra, Bastone e Anello e vai a fare il vescovo prima che ci prendano i cinque minuti…

0017 - Campanile dei canonici

Vabbè, forse il Vescovo non era proprio la sua vocazione, ma Ambrogio era uno che si applicava, e si applicò alla sua nuova missione tanto bene da diventare santo.
Predicava, costruiva basiliche, ritrovava reliquie, spoglie dei Martiri, scriveva e riformava la liturgia ma soprattutto convertiva Ariani, Pagani e Manichei (Sant’Agostino, ad esempio).

E probabilmente era questa opera di conversione a non andar giù al Diavolo.
Si, perchè tra l’età tardoantica e l’alto medioevo il Diavolo, stando alle fonti, abitava tra Lombardia ed Emilia. Costruiva ponti a Bobbio, abbatteva chiese a Lomello e talvolta si palesava ai vescovi.
Ad esempio ad Ambrogio.

0006 - Campanile e colonna

Travestito da popolano una bella mattina gli si parò davanti e cominciò a dirgliene di ogni.
E vergognati. E sei il peggior vescovo di sempre. E quando c’era Aussenzio era tutta un’altra roba. E quanto tempo perdi a scrivere in latino. E piantala di predicare contro gli eretici. E lascia in pace gli Ariani che non ti han fatto niente di male…

Va bene la temperanza, va bene la mitezza, ma Ambrogio cominciava ad alterarsi.
Uno sconosciuto che ti ferma in mezzo alla strada e ti copre di contumelie non piace a nessuno.
E si fosse limitato agli insulti. Ma all’improvviso il popolano inferforato iniziò a strattonare e spingere il buon Vescovo.
Ambrogio riuscì a divincolarsi e stava già per mettersi a correre chiamando aiuto quando l’aggressore iniziò a caricarlo a testa bassa proprio come un toro. Non era più l’innocuo popolano di poco prima, era un demone fatto e finito, con zoccoli, coda, corna e odore di zolfo.
Il povero vescovo vedeva già la sua fine, ma l’istinto lo fece ruotare su un piede e il Diavolo andò dritto contro una colonna in cui le corna si conficcarono immobilizzandolo.
Dice la leggenda che rimase lì per tutta la notte, scomparendo al sorgere del sole.

Scomparendo, sì, ma lasciando nella colonna due bei buchi da cui nel silenzio della notte, si dice, si sentono arrivare le voci dei dannati.

0018 - I segni delle corna

La colonna è ancora al suo posto e proprio accanto, sul sito su cui Ambrogio aveva fatto edificare la Basilica dei Martiri, oggi sorge la chiesa intitolata al patrono di Milano.

0007 - Quadriportico e campanile dei canonici

Da fuori non ci si rende bene conto della forma della Basilica.
Da un lato gli edifici della canonica – oggi occupati dal collegio dei geometri – nascondono la chiesa; dall’altra parte c’è il convento delle Suore Minime a impedire la vista.
Sul davanti la vista della facciata è ostruita dal quadriportico regolarmente assediato da automobili inspiegabilmente parcheggiate a ridosso della Basilica.
Ma una volta passata la porticina laterale dell’atrio porticato da cui un tempo i catecumeni assistevano alle funzioni si ha finalmente una vista superba: i lati lunghi del colonnato guidano lo sguardo verso la severa facciata romanica con i due ordini di archi sovrapposti incorniciata dai due campanili che – diversi tra loro come sono – ne smorzano la simmetria con un effetto estremamente suggestivo.

0008 - Quadriportico

Varcata la soglia in molti restano stupiti.
La chiesa è abbastanza spoglia, come nella miglior tradizione romanica, ma lo spazio è enorme.
La chiesa navata centrale è altissima, e quelle laterali – pur sormontate da matronei molto ampi – non sono da meno.

Come al solito, io posso aggiungere poco alle migliaia di guide che trovate in commercio, quindi non aspettatevi una descrizione sistematica.

0012 - Navata

Per quanto mi riguarda le cappelle laterali – quasi tutte con arredi di epoche posteriori – passano quasi inosservate perchè un enorme ciborio calamita il mio sguardo verso il famoso altare in lamina d’oro.
Se non ci sono messe in corso, la luce sotto il ciborio è spenta e per vedere l’altare illuminato attivare la gettoniera. Suppongo che adesso ci voglia un Euro se non due, ma per me la tariffa è sempre la monetina da duecento che veniva richiesta la prima volta che sono stato qui con mio nonno.

Qualcosa lascia straniti arrivando all’altare, ma non si capisce subito cosa. Ci vuole un po’ per rendersi conto che la chiesa è priva del transetto che normalmente si apre proprio in questa zona.

0013 - Sacello di San Vittore in Ciel d'Oro e Altare

Dietro l’altare, sotto l’imponente mosaico, lo spazio del coro è vasto come una chiesa di provincia mentre sotto l’altare c’è una cripta semicircolare, stranamente luminosa, in cui riposano le spoglie di Ambrogio e dei martiri Gervaso e Protaso.

0011 - Cripta

All’esterno dell’aula il cortile della canonica è purtroppo utilizzato come parcheggio e ormai è privo dell’atmosfera raccolta che dovrebbe avere, ma tra un suv e una panda spicca una piccola costruzione di mattoni: una chiesetta indipendente – oggi non utilizzata – che risale al periodo in cui i canonici e i monaci si contendevano la cura della Basilica.

0003 - Canonica

In quasi trent’anni che vengo in Sant’Ambrogio non ho mai avuto il piacere di vederne l’interno, ma voi magari sarete più fortunati.
Nel caso ricordatevi di me e mandatemi una foto!

0015 - Uscendo sul quadriportico
Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, Lombardia, milano

DEVO AVERE UNA CASA PER ANDARE IN GIRO PER IL MONDO – INTRO

Devo avere una casa per andare in giro per il mondo.
Che poi è il titolo di una canzone presa dall’unico album davvero bello degli Assalti Frontali.

Torre Velasca

Ma è anche il titolo di un nuovo viaggio, probabilmente il più lungo della storia del Motografo..
Questa volta non servirà passare la frontiera verso la Provenza nè incamminarsi nella brumosa pianura alla ricerca dell’origine dei Navigli o delle testimonianze del monachesimo cistercense.

Non servirà, anzi, nemmeno lasciare Milano.

Formella

Giugno 2006.
Stavo seduto su un muretto in via Paladini in attesa di entrare per la prima volta in quello per i tre mesi successivi sarebbe stato il mio ufficio. Sopraggiunge una ragazza, palesemente lì per lo stesso motivo. Ci presentiamo. Lei è di Roma.
Piacere, piacere…

– Certo che a Milano non c’è proprio un cazzo, eh? Solo cemento grigio…

La terza frase che mi disse, immediatamente dopo i convenevoli e il classico “ma sei di Milano-Milano?”

Cavallo Emo

Avrei potuto concludere lì la conversazione con una doverosa testata alla radice del naso e andarmene cantando le alate parole di Alberto Fortis, ma non è il mio stile.
E poi, poveretta, era arrivata in città quella mattina e aveva visto solamente lo svincolo della tangenziale di Viale Forlanini.

E allora ho tentato di raccontarle la bellezza nascosta di questa città. Le chiese romaniche che sbucano in ogni angolo, le risaie e le cascine che arrivano a sfiorare il centro, le tracce della dominazione spagnola, i cortili opulenti nascosti dietro facciate che rispettano l’imperativo della medietas asburgica…

Vetrata

Ha funzionato secondo voi? Ma nemmeno per idea.

Ma siccome non so darmi per vinto, io questa sorta di guida poco ragionata alla bellezza in una grande città la voglio dedicare anche a quella collega di cui non ricordo nemmeno il nome.