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Lombardia, Varese

LA TOSCANA LOMBARDA

Circa 140 km, più altrettanti perchè mi sono perso 30 volte

La provincia di Varese è quel posto in cui una località con due stelle sulla guida verde del Touring non è indicata sul cartello di uscita della tangenziale.
Sai mai che qualcuno da fuori voglia venire a dare un occhiata. Magari persino un – Dio ce ne scampi – Meridionale…
Ma per fortuna il vostro Motografo di fiducia (che essendo nato a Milano per i Varesotti è un Meridionale) è qui per rimediare dandovi tutte le indicazioni del caso.
Per raggiungere Castiglione Olona – da Milano – dovete Prendere la A8 uscendone a Gazzada per poi rientrare immediatamente in autostrada sulla A60 (occhio: non ha i caselli ma si paga) in direzione di Gazzada/Ponte di Vedano fino a Vedano Olona.
Uscite e, alla rotonda, proseguite sulla Varesina (SP233) in direzione Milano/Tradate.
Fate ancora qualche kilometro e, finalmente, ecco Castiglione.
Non c’è di che.

Ok, ma voi vi starete chiedendo cosa diavolo abbia di così straordinario Castiglione Olona per meritarsi due stelle sulla Guida Verde della Lombardia.
Per capirlo bisogna tornare al 1425 quando il Cardinale Branda Castiglioni, un arzillo 75enne protagonista delle principali vicende spirituali e temporali del suo tempo, torna al suo paesello natale nella Valle dell’Olona e lo trasforma in pochi anni nel primo centro dell’architettura umanistica e rinascimentale in Lombardia.

Borgo - Arco

Per rendersi conto di ciò di cui stiamo parlando bisogna tener conto del fatto che in quel momento la cupola del Duomo di Firenze non era ancora terminata, Leon Battista Alberti e il Filarete avevano 20 anni o poco più mentre Bramante e Leonardo non erano nemmeno nati.
L’architettura lombarda in quel periodo è ancora pienamente medioevale. I grandi capolavori della versione locale del gotico sono, si può dire, ancora moderni. Il Duomo di Milano è appena all’inizio della sua vicenda costruttiva (conclusa solo negli anni ‘30 del ‘900), tanto che l’altar maggiore è stato consacrato, proprio da Branda, solo sette anni prima.

È in questo contesto che Branda inizia il suo programma di riedificazione e infatti la Collegiata – il primo degli edifici voluti dal Cardinale – ha ancora un aspetto sostanzialmente medioevale, con la sua facciata a capanna su cui si aprono monofore ancora a sesto acuto.
Eppure già il portale di ingresso – datato 1428 – inizia a parlare una nuova lingua grazie alla sua lunetta a tutto sesto che richiama, alla mia mente di profano, le architetture che fioriranno a Milano 50, anche 100 anni dopo.

Collegiata - Facciata

Ma se la struttura è ancora fondamentalmente gotica, è il suo apparato iconografico a fare un balzo in avanti aprendo, nei fatti, il Rinascimento lombardo.
Le opere di Paolo Schiavo, del Vecchietta e soprattutto il ciclo della Vergine di Masolino da Panicale – protegée di Branda che lo aveva conosciuto in Boemia – portano in Lombardia la prospettiva, la composizione spaziale e la ricerca dell’illusionismo dei maestri della pittura Toscana del tempo.

Collegiata - Scene della vita della Vergine - Masolino da Panicale

È sempre Masolino ad affrescare il battistero annesso alla chiesa.
Sebbene molto rovinato – specialmente sulle pareti nord e ovest – il ciclo di affreschi sulla vita di Giovanni Battista dimostra tutta la maestria e la novità della pittura di Masolino.
Il Battesimo di Cristo, al centro vale da solo il prezzo del biglietto (6€, più altri 6 per il biglietto fotografico).

Battistero - Battesimo nel Giordano - Masolino da Panicale

Battistero - Figura di moro - Masolino da Panicale

Nei pochi anni tra l’avvio dei lavori della collegiata (1425) e la morte di Branda (1443) Castiglione è un cantiere continuo che neanche Milano prima di Expo 2015.
Il palazzo, prima di tutto. Su una struttura trecentesca Branda fa edificare un nuovo corpo caratterizzato da un decoro geometrico e da una delicatissima loggetta da cui si domina la piazza centrale del paese.

Palazzo Branda - Facciata

Il palazzo è stato grandemente rimaneggiato nei secoli (notevole una sala con affreschi neogotici di inizio ‘900 nella zona della quadreria), ma nella loggetta e nelle sale note come la camera da letto e lo studio del Cardinale gli affreschi originali quattrocenteschi sono perfettamente conservati e sorprendono per la grazia e la potenza.

Palazzo Branda - Natura Morta - Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta

Palazzo Branda - Camera da letto 4

Gli affreschi a tutta parete, dal soffitto al pavimento, mi stupiscono sempre e quello della camera da letto (dove probabilmente Branda non dormiva affatto) è particolarmente impressionante. La fascia principale è, ai miei occhi, di una modernità incredibile grazie all’effetto “cut-off” dato dagli alberi neri, bidimensionali, che si stagliano su un rosso brillante incredibile.

Palazzo Branda - Camera da Letto 5

Ma il gioiello vero è nella piccola stanza accanto, lo “studio”: Sopra a due splendidi mappamondi seicenteschi, è di nuovo Masolino da Panicale a strappare gli applausi con il suo paesaggio montano (o paesaggio ungherese) del 1435.

Palazzo Branda - Paesaggio montano - Masolino da Panicale

Oltre alla collegiata e al palazzo Branda fece costruire fortificazioni, un ospizio per i poveri, una scuola di musica e grammatica, altre residenze per i suoi parenti, tutto in uno stile coerente che rese Castiglione straordinariamente simile ad una cittadina toscana coeva.

Chiesa di Villa - San Cristoforo - (Scuola di) Jacopino da Tradate

È proprio sulla piazza, esattamente davanti alla splendida loggetta del palazzo cardinalizio, che si trova la più impressionante testimonianza di modernità architettonica del borgo lombardo.
Se il palazzo e la collegiata stupiscono soprattutto con la decorazione pittorica, infatti, la Chiesa di Villa lo fa con forme inusuali che mescolano una evidentissima influenza fiorentina (si ipotizza una consulenza del Brunelleschi stesso) con stilemi della tradizione lombarda.

Chiesa di Villa - Sant'Antonio Abate - (Scuola di) Jacopino da Tradate

E chi può essere l’artefice di questa costruzione?
Bravi. Il solito Masolino da Panicale stavolta veste i panni di architetto coadiuvato da Matteo Raverti, autore delle statue ciclopiche (i santi Cristoforo e Antonio abate) che sorvegliano il grande portone d’ingresso e vigilano sulla piazza dove, mentre visito il paese, stanno allestendo il concerto della banda.

Chiesa di Villa - La Vergine delle Grazie - Galdino da Varese

Stavo quasi per andarmene senza visitare il [MAP] Museo di Arte Plastica, che sospettavo cagata pazzesca, ma ho fatto bene a cambiare idea.
È stata la tirchieria a convincermi. Nel biglietto del Palazzo del Cardinale (3€) è compresa la visita al Museo, e non vorremo mica buttar via un ingresso ormai pagato, no?

La sede è un piccolo palazzo a poche centinaia di metri dalla piazza, appartenente a un ramo cadetto della famiglia Castiglioni. La decorazione delle pareti della parte bassa del grande ambiente centrale, quasi un clone di quella della camera da letto del Cardinale, testimonia il profondo legame tra i due palazzi, ma le sale oggi sono usate per rendere omaggio a un’arte molto più moderna.
Castiglione è sede di un’industria plastica (la Mazzucchelli) che tra il ‘69 e il ‘71 organizzò delle residenze artistiche per sperimentare, assieme ad alcuni tra i più grandi artisti del tempo, le potenzialità della plastica come materiale scultorio.

MAP - Boule sans neige 2

Tante opere sono, onestamente, banalotte.
O meglio, a me che sono abbastanza critico nei confronti di tutta l’arte influenzata dalla Pop Art e dall’idea della riproducibilità meccanica delle opere sembrano banalotte.
Molti pezzi, ad esempio i “guardoni” di Valentina Berardinone, mi paiono più che altro oggetti decorativi, pezzi di design privati della loro utilità pratica (i dialetti lombardo-occidentali sintetizzano questo concetto nella splendida parola ciapapulver).
Al limite mere sperimentazioni sulla tecnica della lavorazione della plastica che non opere compiute, ma questa è una sensazione epidermica e onestamente, senza conoscere bene la vicenda dei singoli artisti e di Polimero Arte, mi sento obbligato a sospendere il giudizio e a dirvi di venire di persona a visitare il museo.

Ci sono opere che, però, riservano piacevolissime sorprese. La “Boule sans Neige” di Man Ray, ad esempio, ma anche il “Ritratto di Max Ernst” di Enrico Baj e soprattutto – a mio personalissimo gusto – il “Cubo Graffito” di Anna Marchi, la cui superficie satinata esplora le possibilità materiche di un materiale che nei primi anni ’70 era ancora tutto sommato nuovo, almeno per il mondo dell’arte.

MAP - Anna Marchi - Cubo Graffito 1

S’è fatto tardi, ormai, e io ho esplorato ogni singolo centimetro visitabile di quella che – secondo una fortunata definizione di quel genio del copywriting di Gabriele D’Annunzio – è “un’isola di Toscana in Lombardia”.

Ma la mia giornata varesotta non è ancora finita.
Per l’ennesima volta so di essere a pochi kilometri dagli scavi archeologici di Golasecca e, oggi, non ho intenzione di farmeli scappare.

Sapete tutti che, a partire dagli anni ‘80, in Provincia di Varese ha iniziato a svilupparsi un movimento politico che, a dispetto dell’essere oggi capitanato da un milanese che si è fatto eleggere a Reggio Calabria, metteva la specificità culturale – persino etnica – del Nord Italia al centro della sua ideologia, arrivando a fare della resistenza celtica all’avanzata dell’impero romano nella Pianura Padana il proprio mito fondativo.
Un movimento, va ricordato, che è stato al governo della Provincia ininterrottamente dal ‘93 al 2014 e poi di nuovo dalla fine del 2018.

Sapendo che sul territorio provinciale sono presenti importantissimi lasciti di una civiltà, quella di Golasecca, pre-romana, autoctona, di probabili origini celtiche, ti aspetteresti una valorizzazione fin eccessiva.
Cartelli ed indicazioni in ogni dove, rievocazioni, musei etnografici con laboratori di ceramica protostorica, corsi di concia del cuoio con l’urina e seminari di cucina celto-lombarda con concorso finale che Masterchef levati…

E invece? E invece un cazzo.
Sarà che far gli scemi con l’elmo con le corna (che i Galli non portavano) e con il Sole delle Alpi (che si trova pure sugli stipiti delle porte di Ischia) è comodo, mentre una valorizzazione culturale di quel genere richiede studio, fatica e lavoro. E soldi, ovviamente.

Insomma, quando arrivo a Golasecca faccio una bella fatica a trovare l’area archeologica del Monsorino.

In verità ben due pedoni mi danno le indicazioni corrette: “dal centro del paese vai giù per la discesa, segui la strada principale e sotto il ponte dell’autostrada, vicino alla spiaggia del Ticino, troverai le indicazioni.”
Ecco, è quel “troverai le indicazioni” ad essere fallace, perché arrivando da Golasecca il cartello che indica la necropoli è completamente stinto, illeggibile.

Il cartello che (non) indica la necropoli del Monsorino

Solo al terzo tentativo, arrivando dalla direzione opposta, riesco a capire dove devo andare.
Parcheggio la moto sotto il ponte, in mezzo alle auto dei bagnanti, tra misteriose galline semiselvatiche, e mi incammino nel bosco su per il sentiero.
Superata la radura (anche qui nessuna indicazione, ma proseguite dritti) eccomi, finalmente, alla necropoli del Monsorino, il primo sito golasecchiano mai scoperto.

Necropoli del Monsorino - 3

La civiltà di Golasecca si estese, dal IX al IV secolo avanti Cristo, tra il corso del Sesia e quello del Serio, con il Ticino a fare da asse portante.
Presumibilmente di origine celtica, i Golasecchiani erano principalmente commercianti che operavano sulle rotte del sale fungendo da cardine tra gli Etruschi e le popolazioni del transalpine.
Da bravi commercianti, i Golasecchiani diedero un importante stimolo allo sviluppo “urbano” della zona fondando, a quanto pare, i primi nuclei di Milano e di Como.

E noi indichiamo i loro resti con un cartello stinto…

Qui al Monsorino sono stati ritrovate, a partire dall’800 svariate sepolture. I manufatti (urne cinerarie di vario tipo e corredi funebri) oggi sono conservati nei musei di Sesto Calende e Golasecca (entrambi fanno orari da motorizzazione civile, scordatevi di riuscire a visitarli nel finesettimana), mentre qui nel bosco rimangono visibili i cromlech che delimitavano le aree funerarie.

Necropoli del Monsorino - 4

Io lo so che alla parola cromlech avete tutti pensato a Stonehenge. Ecco, no. Qui si parla di pietre alte al massimo trenta, quaranta centimetri.

Una delle cose che mi sorprende sempre visitando i siti archeologici è il come i primi scopritori (l’abate Giani qui, Vittorino Cazzetta sul Mondeval e sul Monte Pelmo) siano stati in grado di distinguere l’anomalia in un paesaggio assolutamente normale.

Necropoli del Monsorino - 1

Passando di qui con occhio distratto, o semplicemente cercando altro (castagne, funghi) vi sareste forse resi conto dell’abbondanza di pietre che affiorano da questo prato ma, onestamente, avreste saputo riconoscere il pattern circolare dei cromlech, le linee parallele delle allee?

Adottando questo punto di vista converrete con me che questi piccoli cromlech valgono quasi più dei megaliti di Stonehenge. O no?

Lombardia, Varese

IL SEPRIO LONGOBARDO

A nord di Milano esiste la celeberrima fascia dell’imperativo*. Un’area relativamente compatta in cui tutti i nomi dei paesi finiscono in -ate, come se, appunto, fossero delle esortazioni.

Gallarate, Tradate, Malnate. Liscate, Pescate, Grandate. Trecate, Galliate, Samarate. Garbagnate, Novate, Cesate e Baranzate. Gornate, Mozzate, Turate, Fate, Baciate, Lettera e Testamento.

L’origine di questi nomi è talvolta celtica e talvolta latina, fatto sta che è estremamente frequente in una determinata area tra il Piemonte Orientale e la provincia di Brescia e praticamente assente in tutto il resto d’Italia. Non c’è una spiegazione per questo, salvo forse l’innata assertività delle popolazioni di queste parti…

Cairate confina con Lonate (Ceppino, non quella che non deve essere nominata), Tradate e Rovate ed è – come potete immaginare – proprio al centro di questa fascia, ma io non sono certo venuto fino a qui per parlare di toponomastica.

La mia meta è il monastero benedettino di Santa Maria Assunta.

Lo scorso anno ho scritto all’assessorato al turismo della Provincia di Varese per richiedere la mappa della Via Verde Varesina.
L’ho fatto come si compra un biglietto della lotteria: certo che non avrei mai avuto risposta.

fiorinfiorello 3

E invece un mesetto più tardi mi è arrivata una busta contenente la mappa che avevo chiesto e, per giunta, tutta una serie di opuscoletti e depliant sulle destinazioni turistiche della Provincia. Che uno non lo direbbe mai, ma nasconde tante piccole perle sconosciute.

È qui che ho sentito parlare per la prima volta di Cairate.
È che io sono una bestia disordinata, e l’opuscolo è rimasto appoggiato insieme a molti altri sul ripiano “gite da programmare” del mio piccolo ufficio casalingo.
(Ok, ok… Il ripiano in questione è il davanzale del bagno. Perchè, voi dove studiate i vostri itinerari, normalmente?)

Poi qualche tempo fa il buon M. mi ha parlato nuovamente del Monastero di Cairate, riaprendomi quel piccolo cassettino della memoria in cui avevo stipato il ricordo.

La leggenda vuole che il monastero sia stato fondato – come dono per grazia ricevuta – da Manigunda, la nipote del re longobardo Liutiprando.

Di questo, naturalmente, non esistono prove, e Manigunda probabilmente non è mai esistita, anche se c’è chi dice che il suo fantasma viva ancora tra le mura del convento.
Ciononostante l’origine longobarda del monastero è provata, tra l’altro, dal fatto che pur trovandosi nella diocesi di Milano, il monastero fu sempre soggetto al vescovo della capitale Pavia.

Il monastero di Santa Maria Assunta ha avuto una storia quasi millenaria, ma dopo un paio di secoli di progressivo declino culminati con la soppressione napoleonica, la sua struttura è stata abbandonata, smembrata in diverse proprietà e utilizzata per lo più come struttura agricola.

Tessitura muraria

“L’ultima volta che sono entrato qui prima del restauro – mi dice la guida volontaria che mi sta accompagnando tra le stanze del monastero – questo locale, che probabilmente era il refettorio delle monache, era una stalla. Dove adesso ci sono quei pannelli c’erano le mucche e i vitelli”.

Un primo passo per il recupero della struttura si ha negli anni ‘60, quando lo stabile viene messo sotto tutela dalla sovraintendenza. Il comune ne acquista metà, ma l’altra metà resta di proprietà di una famiglia del posto con cui non si trova un accordo. Solo nei tardi anni ‘80, con l’intervento della Provincia, la struttura torna all’originaria unità e si iniziano gli scavi archeologici.

chiostro 2

Scavi durante i quali si scopre che prima del monastero, di Manigunda, e dei Longobardi qui c’era una Villa romana e, proprio dove sarebbe sorta la sala conciliare delle monache, una piccola necropoli.

L’intera storia architettonica del monastero, mi spiega la guida, è fatta di riuso del materiale esistente. Accanto alle tombe romane ne sono state trovate tre di epoca longobarda. Tre tombe privilegiate, la cui struttura in pietra decorata è fatta recuperando steli e bassorilievi di epoca precedente.

Sepultura con materiali di recupero

L’architrave con il fregio con le colombe – da sempre considerato il simbolo del monastero – non è stata trafugata negli anni di abbandono perchè era stata utilizzata come gradino di una scala.

colombe 2

Il cosiddetto sarcofago di Manigunda è privo di coperchio – mi dirà poi – perchè negli anni era stato probabilmente usato come vasca di un lavabo.

Tutto sommato questo è uno degli aspetti più interessanti della struttura. Rimane molto poco dell’atmosfera del monastero. Le grandi sale sono tendenzialmente vuote ed allestite come museo (si sta anche preparando il museo multimediale dei Longobardi, che aprirà probabilmente alla fine del 2017), ma in questo concatenarsi di modifiche, riusi e riscoperte si riesce a vedere e a seguire il corso della storia.

tamburi

Tra una teca con i resti delle maioliche delle monache e il ricco appartamento della Badessa Castiglioni, arriviamo a una porticina che dalla balconata del chiostro immette nella vecchia chiesa. E mi trovo davanti l’incredibile affresco di Aurelio Luini (figlio di Bernardino).

Panorama Luini

La rappresentazione della vita della Vergine, dalla nascita all’assunzione, è imponente e coloratissima e il punto di vista che si ha da questa balconata – che pure non esisteva ai tempi del Luini – permette di apprezzare l’opera da una posizione privilegiata.

affresco

Attorno alla metà del 500 i Longobardi passano l’Isonzo e entrano in Italia. La resistenza bizantina è debole e in pochi anni il loro dominio si estende dal Friuli al Piemonte Orientale e poi, una manciata di anni più tardi arrva ad includere la Toscana, l’Umbria, il Lazio e la Campania. Cairate, quindi, era solo uno dei loro insediamenti, e nemmeno il più importante. A pochissimi kilometri sorgeva il castrum di Castelseprio con l’annesso Monastero di Torba.

Proprio il Monastero di Torba – oggi nel territorio di Gornate Olona – è la mia tappa successiva.
Se a Cairate l’atmosfera è stata irrimediabilmente guastata dalle trasformazioni architettoniche e il principale motivo di interesse sono le opere conservate, a Torba è tutto il contrario.
Sebbene anche qui le monache avessero lasciato il posto ai mezzadri, la struttura del convento non aveva subito particolari modifiche e, quando negli anni ‘70 il FAI ha iniziato l’opera di recupero del monumento, il restauro ha dovuto rimediare ai segni del tempo e dell’abbandono, ma non cercare di intuire una forma sotto decine di strati di modifiche.

Il complesso monastico

Appollaiato su un fianco della collina di Castelseprio, il monastero comprende una piccola chiesetta di pietra e mattoni, un fienile, il refettorio – oggi ristorante – con il forno per il pane a disposizione dei pellegrini ed una torre di avvistamento di epoca romana.

chiesa dalla torre

Appena sopra la chiesa inizia un tratto di mura dell’insediamento di Castelseprio, che sta sulla cima della collina.

Piccolo, raccolto, immerso nel verde, il monastero di Torba è un gioiellino fatto tutto di atmosfera. La quiete della valle dell’Olona – sebbene la zona industriale sia a un tiro di sputo – è come amplificata dalla semplicità delle costruzioni.
La chiesa, di pietra e mattoni, è completamente spoglia. Si intuiscono appena le tracce degli affreschi del nono secolo – ormai inintelleggibili – e solo nella piccola cripta absidale rimane qualche traccia di decoro scultoreo.

Abside

È nella torre che si nasconde la sorpresa. Il livello più basso è ancora spoglio, fedele alla vocazione militare dell’edificio, ma al piano superiore si apre una stanza quadrata, illuminata da grandi finestre decorata da affreschi che descrivono la glorificazione di Gesù.

Cristo imberbe (?)

Interessante è il dettaglio delle monache rappresentate negli affreschi, prive di lineamenti riconoscibili, come a voler sottolineare la perdita di individualità sottesa alla scelta monastica.

le monache senza volto

La fortificazione di Castelseprio nasce, a quanto pare, nel quarto secolo come linea difensiva contro le migrazioni dei popoli germanici ma, ironia della sorte, oggi è ricordato soprattutto per le testimonianze della presenza dei Longobardi – germanici – nel varesotto.

Circondato da un bosco di latifoglie, a poche decine di metri dal centro del paese odierno, l’insediamento era circondato da spesse mura in pietra – le stesse visibili a Torba – e da un fosso solcato da un ponte di cui oggi restano solo i piloni.

Piloni del ponte di accesso al Castrum

All’interno della cerchia si indovinano i resti di alcuni edifici abitativi – di cui resta solo la pianta – e di almeno due grandi chiese: San Giovanni Evangelista, di cui resta parte dell’abside e del battistero, e San Paolo, di cui è visibile l’abside e parte della pianta esagonale. Più in là la cosiddetta Casaforte, unico edificio non religioso di cui resti qualcosa più che la pianta, sorge isolata in fondo a un pianoro che domina la valle dell’Olona. Ancora più in là, dove le mura iniziano a scendere verso Torba, un piccolo convento di molto successivo ospita l’antiquarium dove sono raccolti i reperti ritrovati in loco coprendo un arco di tempo che va dall’età del bronzo al ‘200.

San Giovanni Evangelista da San Paolo

Proprio alla fine del ‘200 risale la distruzione dell’insediamento nell’ambito di una guerra tra Milano e l’allora autonomo Contado del Seprio.
I Milanesi vinsero e l’arcivescovo Ottone Visconti ne decreterà l’abbandono completo, salvo permettere l’uso delle chiese, che resteranno frequentate sino al ‘600 inoltrato.

Pavimentazione del fonte battesimale di San Giovanni Evangelista

Se pure abbandonata, la vecchia Castelseprio non sarà mai del tutto dimenticata. Studiosi ed eruditi ne studieranno i resti a più riprese e già nell’800 si avranno attività – sebbene per certi versi predatorie – volte a valorizzare la memoria del luogo.

San Paolo

Ma è solo nel ‘44 che furono (ri)scoperti gli affrechi di Santa Maria Foris Portas.
Sita fuori dal paese, come dice il nome, Santa Maria è una chiesa a tre absidi databile tra il quinto e il nono secolo che, nel ‘900, era ormai utilizzata come magazzino agricolo.

Santa Maria foris portas

Sull’abside di fondo è visibile un ciclo di affreschi impressionante, seppur danneggiato dal tempo.
Ora, io non sono uno storico dell’arte, e di pittura medievale capisco davvero poco, ma sono abbastanza sereno nel dire che la delicatezza del disegno e del colore di questi affreschi è qualcosa di straordinario.

Affresco (Adorazione forse)

Maria

Sembra – per lo meno all’ignorante che sono – che l’anonimo autore di queste opere abbia lasciato da parte tanto gli effetti cromatici forti quanto la ieraticità dei personaggi per privilegiare un linguaggio narrativo.
Se dovessi descriverli – ma per fortuna ho delle foto da mostrarvi – parlerei quasi di illustrazioni più che di affreschi.

Bambin Gesù

Nonostante le tante campagne di studio, la datazione degli affreschi è ambigua.
Se è abbastanza certo che l’anonimo Maestro di Castelseprio non avesse un’origine culturale Longobarda, gli studiosi non sono concordi: una scuola di pensiero si concentra maggiormente su aspetti quali tratto e impostazione spaziale e parla di un pittore di tradizione bizantina che potrebbe aver operato nel VI, VII secolo; un’altra scuola, che si concentra di più sull’impostazione drammatica e narrativa del ciclo, parla di un autore dell’VIII secolo inoltrato, inserito in un contesto di revival ellenistico proprio della cultura carolingia. Praticamente una sorta di vintage dell’alto medioevo.

“Un paio d’anni fa – dice il custode – sono venuti qui tre professori: un italiano e due stranieri. Hanno chiuso la chiesa per una settimana. Hanno fatto i rilievi, i test, hanno discusso per giorni interi. Se ne sono andati così come sono arrivati, ognuno con la sua idea.”

Sia come sia, a me della datazione frega il giusto.
A me interessa la meraviglia di questo luogo. Il contrasto tra l’odore della campagna qui fuori e quello della pietra e dei mattoni, la luce che filtra dalle monofore, l’essenzialità di questo spazio vuoto e calmo e la potenza di questi affreschi.


*= Va bene, me la sono inventata in questo momento, ma non vedo perchè non possa essere accettata a livello accademico.

Lombardia, Varese, Verbano

IL PAESE DEI PITTORI

Inverno. Non piove e non nevica ma fa un freddo cane.
Mi cola il naso e tossisco come un anziano fumatore di ammezzati alla grappa.
Ammetterete che non sono le condizioni ideali per girare in moto.

Ma io non so stare troppo tempo fermo, e qualche chilometro l’ho voluto fare comunque.

Non sono andato molto lontano da casa. Bastano poco più di 90 km per raggiungere Arcumeggia partendo da Milano.
A8 sino a Vergiate e poi la statale 629 fino a Cittiglio.
La 629 è una strada carogna. Ha un asfalto meraviglioso, un tracciato fantastico tutto ampi curvoni e saliscendi e, sebbene funestata dai temibili semafori eterni, è sempre scorrevole. Un invito a nozze per quelli di noi che hanno il polso un po’ troppo sciolto.
Peccato che ci sia un autovelox ogni qualche metro. Che, nella nobile funzione di ridurre la velocità e prevenire gli incidenti, ottengono il risultato collaterale di dare a paesi come Malgesso, Travedona e Besozzo il PIL di uno stato africano ricco di risorse.
O pensavate che l’asfalto splendido di questa strada fosse dovuto al volontariato degli umarelli della zona armati di cazzuola e frattazzo?!?

Arrivati a Cittiglio avete due possibilità: potete salire dalla provinciale 8 verso il Passo del Cuvignone, ma in questa stagione io passerei la mano, o seguire le indicazioni per Luino e prendere la statale 394 che segue l’andamento della Valcuvia.
In questo caso arrivate a Casalzuigno – dove volendo potreste anche visitare Villa della Porta Bozzolo – e girate per la piccola frazione di Arcumeggia, prendendo la piccola provinciale 7 che si stacca alla vostra sinistra appena usciti dal centro abitato.

0024 - la vista sul borgo

Arcumeggia è uno dei mille borghi che in questa zona si trovano abbarbicati sulle falde delle Prealpi.
Non è poi così in alto (500 metri), ma d’inverno fa un freddo cane. La montagna è aspra, ripida e sassosa e la strada per scendere a valle ripida, tortuosa e scomoda.
Capirete da voi che negli anni del dopoguerra la splendida vista sulla Valcuvia non poteva bastare a convincere i pochi abitanti a rimanere nelle case avite.

0022 - Vista sulla Valcuvia

Così il destino del paese sembrava comune a quello di tutti gli altri mille borghi della zona: spopolamento, abbandono, rovina. Forse, ma forse, in una ventina d’anni l’arrivo di qualche Tedesco a caccia di un buen retiro; ma a quelli piace l’altro versante della montagna, quello da cui si vede il lago.

E invece nel 1956 il Dottor Mario Beretta, presidente dell’ente turistico, ha una pensata geniale: rendere il suo salotto un grande protagonista del ‘900.

0023 - Gianni Dova - la corrida - 64

Non comprando le croste di Staccolanana e Mutandari, naturalmente, ma offrendo spazio ed ospitalità ai protagonisti di una straordinaria stagione dell’arte italiana.
Carpi, Sassu, Treccani, Monachesi, Tomea, Migneco e molti, molti altri hanno lavorato per rendere Arcumeggia il primo dei Borghi Dipinti in Italia.

0021 - Giuseppe Migneco - la partenza dell'emigrante - 1962

I muri del paese sono diventati una galleria a cielo aperto, un repertorio completo dell’arte contemporanea italiana degli anni ’50, ’60 e ’70.

0016 - Aldo Carpi - Gesù cade per la prima volta (dettaglio) - 1963

E Arcumeggia non si è cristallizzata nel tempo. Ancora negli anni ’90, e poi nel primo decennio del nostro secolo, nuovi artisti hanno arricchito le pareti delle antiche case montanare con opere di ogni genere e dimensione.

0017 - Antonio Pedretti - Nelle alpi, cuore d'Europa, le radici dell'unione europea - 2001

Potrei tentare – con pessimi risultati – di raccontarvi ogni pennellata, ogni pannello, ogni affresco, ma invece vi consiglio semplicemente di rivolgervi alla pro loco per avere mappa, audioguida e tutte le informazioni utili alla visita.

0015 - Innocenzo Salvini - La spartizione della polenta in famiglia - 1971

Io, invece, vi voglio dare un altro suggerimento.
Partite da qui e andate verso il Lago, sino a raggiungere Sangiano.
Potete parcheggiare al municipio e salire a piedi per il facile sentiero dei boschi – è il mio consiglio – o decidere di salire con la moto su per Via Montenero sino a raggiungere il parcheggio.
Seguite la piccola via crucis – sono poco più di 300 metri per arrivare al santuario romanico di San Clemente al monte Picuz.

0001 - Il Lago e il Rosa

La chiesetta non è visitabile di norma, ma per una volta non vi ho fatti salire sino a qui per quattro muri di pietra, ma per la vista eccezionale che si gode da qui: tutto il basso e medio Verbano, da Sesto Calende alle Isole Borromee fino a Baveno ed oltre, le cave di Candoglia e, soprattutto, l’inconfondibile massiccio del Monte Rosa.