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Val di Zoldo, Veneto

IL CAREGÓN DEL PADRETERNO E ALTRE STORIE (TERZA PARTE)

Vittorino Cazzetta, ve l’ho detto, era un personaggio dotato di uno spirito di osservazione fuori dal comune.
Non contento di avere individuato le orme dei dinosauri del Pelmo, tra i primi reperti del genere trovati in Italia, pochi anni dopo avrebbe contribuito ad un’ulteriore scoperta, forse ancora più importante.

Da Forno di Zoldo risaliamo lungo la valle sino al Passo Staulanza e da lì scendiamo a Selva di Cadore e poi, poco dopo l’abitato, svoltiamo a destra e iniziamo a risalire la valle.
Sono 29 i tornanti che aiutano a scalare una pendenza vertiginosa.
In pochi minuti, con il motore che grida per lo sforzo, si passa dai 1.300 e pochi metri di Selva ai 2.236 del Passo di Giau.

Dal parcheggio di fronte al rifugio si gode una vista incredibile. Il Nuvolau e l’Averau (rispettivamente 2.575 e 2.647) torreggiano appena sopra il passo, così vicini che sembra quasi si possano scalare senza fatica, come si fa una passeggiata digestiva dopo pranzo.

Ma noi, che siamo i soliti bastian contrari, ci giriamo esattamente dall’altra parte, passiamo alla sinistra della chiesetta e ci incamminiamo sul sentiero che porta alla Forcella di Col Piombin.

Panorama da Forcella Col Piombin

Si cammina piacevolmente su un sentiero apparentemente privo di difficoltà. Si scende un po’, si risale e si arriva alla forcella. E qui si apre un panorama straordinario.
La Val Cernera è incantevole, completamente disabitata, selvaggia.

Se passate di qui in estate vedrete placide mandrie di vacche pascolare liberamente, senza nemmeno l’ombra di un recinto all’orizzonte. Se ci passate di inverno saranno neve, ghiaccio e roccia a dominare il paesaggio solcato solo dai passi di qualche camoscio.

Il sentiero scende morbido illudendoti che non verserai nemmeno una stilla di sudore e, in breve, inizia a risalire sull’altro versante della valle. Che, carogna, è quasi verticale e chiede un tributo di fiato inaspettato.
Ma è solo uno strappo. Pochi passi e si arriva a toccare i 2.360 della Forcella Giau.
Il tempo di rifiatare e ci rendiamo conto di quello che abbiamo di fronte.

Panorama dalla Forcella Giau

Alla nostra sinistra la lunghissima parete verticale dei Lastioi di Formin (2.657), come una maestosa scogliera, a destra il Piz del Corvo e in mezzo un pianoro – il Mondeval – verdissimo, dolcemente ondulato, costellato di enormi massi erratici.
Al centro di questo pianoro un laghetto – il Lago delle Baste – e all’orizzonte il nostro caro, vecchio Monte Pelmo, il perno delle nostre divagazioni.

E Vittorino?
Non me lo sono dimenticato, tranquilli.

Lastioi di Formin dal Lago delle Baste

Ma voi guardatevi intorno un attimo. Beatevi del paesaggio e sedetevi a mangiare qualcosa ai piedi di uno di questi massi erratici. Magari proprio quello là in fondo, un po’ oltre il lago, sulla sinistra.

Perchè quello? Cos’ha di diverso quello da quell’altro?
Ottima domanda. Bravissimi. Non ha assolutamente nulla di diverso.

Ma un giorno del 1985 Vittorino Cazzetta lesse un articolo che descriveva gli insediamenti degli uomini del periodo mesolitico.
E si ricordò di quando, ragazzino, saliva al pascolo con la madre e raccoglieva, per gioco, ii sassi con le forme più particolari che riusciva a trovare.
E se non fossero stati sassolini? E se fossero stati manufatti primitivi?

Panorama dal Lago delle Baste (Pelmo e Mondeval)

E allora Vittorino sale al Mondeval – a piedi da Selva probabilmente – e inizia a guardarsi intorno. E nella terra smossa da una marmotta trova effettivamente tracce di manufatti di pietra.

Vabbè, una punta di freccia…
Eh, no. Altro che punta di freccia. Cazzetta contatta gli studiosi e, sotto la direzione del Professor Guerreschi di Ferrara iniziano gli scavi che portano alla luce l’uomo di Mondeval.

Ed è un ritrovamento di importanza capitale.
La presenza del corpo di quest’uomo non è, come nel più famoso caso di Ötzi, frutto di un incedente di caccia o di una battaglia.
L’uomo del Mondeval è stato volontariamente sepolto qui dai suoi compagni, dai suoi familiari.
Erano accampati qui, probabilmente la loro capanna poggiava proprio su questo masso erratico e lui, per qualche motivo, qui ci è morto.
E allora hanno scavato una fossa, vi hanno deposto il corpo ed un corredo di oggetti utili per l’aldilà.

Pelmo, Lago delle Baste e massi erratici al Mondeval

Nulla di tutto questo era scontato.
Questi massi sono tutti uguali tra loro.
Prima che Cazzetta trovasse i manufatti non si pensava che gli uomini primitivi bazzicassero quote così alte e, soprattutto, quella di Mondeval è l’unica sepoltura mesolitica (10, 12.000 anni fa) in alta quota che si conosca.
Ve l’ho detto che Vittorino aveva occhio, no?

Tornati a valle facciamo una piccolissima deviazione verso Colle Santa Lucia per mangiare il prosciutto di cervo e i canederli al Belvedere.

Dopo questa sosta ricreativa un’ultima tappa: il museo intitolato a Cazzetta a Selva di Cadore.
Il museo è piccolo ma affascinante ed affronta tutta la vasta gamma di interessi di Cazzetta. Si apre con la sezione geologica che ripercorre la formazione delle dolomiti e culmina nel calco delle orme dei dinosauri per poi passare alla sezione preistorica. È qui che si trovano i reperti trovati sull’altopiano e, in un allestimento suggestivo e rispettoso, il corpo dell’Uomo del Mondeval.

Normalmente schivo come la peste i video ilustrativi dei musei, ma in questo caso vi suggerisco di non farlo.
Sebbene con dei titoli incredibilmente anni ’90, infatti, il filmato proiettato qui ricostruisce in modo avvincente l’affascinante storia del ritrovamento di Cazzetta e degli scavi.

Val di Zoldo, Veneto

IL CAREGÓN DEL PADRETERNO E ALTRE STORIE (SECONDA PARTE)

La sveglia suona presto per iniziare il nostro secondo giorno in Val di Zoldo.
Prendendo Forno come base per i nostri spostamenti, io vi avrei suggerito di fermarvi a dormire all’Hotel Posta, dove la robusta colazione servita da Italo vi rimetterà al mondo e i suoi consigli renderanno superfluo il mio lavoro.

Appena finito di mangiare ci allacciamo gli scarponi e saliamo in macchina (se non sai perchè sto parlando di macchine clicca qui).
Anzi, prima recuperiamo un paio di panini e dell’acqua, che ne avremo bisogno.

Ci dirigiamo verso Zoldo Alto e poi ancora più su, oltre Palafavera. Qui la montagna decide di strappare di colpo e la provinciale 251 si fa ostica con quattro o cinque tornanti che con neve e ghiaccio possono essere poco amichevoli. Ma niente paura, la strada torna subito più gentile.

Passiamo un ultimo tornante. Da cui si dirama un bel sentiero pianeggiante che porta alla Malga Fontana Fredda e, volendo, permette di scendere verso Alleghe all’ombra del massiccio del Civetta. Una deviazione consigliata soprattutto in inverno dopo una nevicata, quando i percorsi più impegnativi diventano meno agevoli.

0038 - Malga Fontana Freda - Parelio

Ma oggi proseguiamo ancora qualche centinaio di metri, fino al Passo Staulanza.
Il valico, tra le pendici del Pelmo e il Monte Crot, mette in comunicazione la Zoldo e la sua valle con Selva di Cadore e la Val Fiorentina.

Lasciamo la macchina sul passo e,dando le spalle al rifugio, scavalchiamo il recinto delle mucche e ci addentriamo nel bosco. Dopo pochi passi un cartello ci aiuta ad orientarci davanti al primo bivio. Noi puntiamo a sinistra seguendo per Val d’Arcia.

Da qui in poi dobbiamo stare attenti e tenere il sentiero un po’ più a monte, che è quello che ci consentirà, più avanti, di fare un po’ meno fatica.

Lastioi di Formin e pianoro di Mondeval dai ghiaioni del Pelmo

Il nostro sentiero sale dolcemente in un paesaggio che presto si fa lunare. Sopra di noi la parete nord-ovest del Pelmo (il didietro dello schienale del trono, insomma) piomba verticale in un ghiaione morbido e brullo.
È proprio sul ghiaione che ci stiamo muovendo. Naturalmente bisogna muoversi con cautela e rispetto sia per evitare di smuovere troppo le pietre creando piccole frane spiacevoli sia perchè facendo silenzio può capitare che un camoscio o una marmotta, per nulla impauriti, facciano capolino dalle rocce sopra di noi.

I ghiaioni del Pelmo

Questo è forse il tratto meno frequentato di tutto il giro del Pelmo e c’è qualcosa di davvero sraniante nel procedere in questo ambiente ostico e straordinariamente affascinante. Le auto sulla statale poco sotto di noi, le persone, i paesi a fondo valle; tutto sembra sparire e, anche se siamo partiti da poche decine di minuti si può avere la sensazione di muoversi in un continente disabitato, in un ambiente intonso ed inadatto alla vita umana.

Ghiaione e piccolo nevaio sul Pelmo

Il sentiero che stiamo percorrendo è abbastanza facile, ma è lungo e tutto allo scoperto. Io vi consiglio di farlo di mattina abbastanza presto onde evitare che il sole a piombo lo renda un inferno, ma molto dipende dalla stagione: in autunno è possibile che i nevai che si formano nella parte più in alto rendano complicato avanzare.
In ogni caso richiede un minimo di preparazione fisica. Se siete pigri o avete dei bambini piccoli aspettateci sui prati del passo, che al ritorno ci saranno delle belle sorprese per tutti.

In poco più di un’ora si arriva all’altro capo della parete, nei pressi della Forcella Forada, su un pianoro dove un po’ di erba ispida riesce finalmente a far capolino tra le rocce. La tentazione di fermarsi qui, godendosi la vista sulla Val Fiorentina e sul Cadore è forte, ma siamo solo all’inizio…

Panorama sulla Val Fiorentina dalla Forcella Forada

Sopra di noi il ghiaione si fa ripido e il sentiero (cai 480) inizia a salire sul serio. Sopra di noi, a destra, la spalla est del Pelmo con i suoi tremila e rotti metri, a sinistra i duemila seciento e passa delle Cime di Val d’Arcia. In mezzo il paesaggio del ghiaione torna lunare. Pietroni aguzzi biancastri e, nelle conche più ombrose, nevai che sopravvivono tutto l’anno nonostante il caldo.

Ghiaioni sotto la forcella Val D'Arcia

Ripido sì, faticoso sì, ma il sentiero è tutto sommato facile, soprattutto in salita, e non ci vuole moltissimo per arrivare alla Forcella di Val d’Arcia. Non so dire perchè. Sarà l’altezza (2.476 mslm), sarà la fatica della salita, ma quando sono arrivato qui ho avuto, onestamente, un capogiro.

La Forcella mette in comunicazione il versante Nord-Ovest del Pelmo con il versante est. Alle nostre spalle i Lastioi di Formin e la Val Fiorentina. Davanti a noi il Monte Rite e più in fondo la sagoma maestosa dell’Antelao. Da qui si potrebbe scendere attraverso una sentiero attrezzato (una sorta di ferrata) sino al Rifugio Venezia e, da lì, tornare al punto di partenza completando il giro del Pelmo. Il fatto è che quando ho compiuto questo tragitto la ferrata era chiusa per una frana e non si poteva proseguire.

Allora torniamo sui nostri passi.
Per quanto io mi sia sempre lamentato della mia incapacità di andare in salita, la vera verità è che io sono lento soprattutto in discesa. Ho sempre la sensazione di mettere un piede in fallo, mi indurisco e arrivo giù con le ginocchia che fanno Giacomo Giacomo e i quadricipiti in fiamme.
Per questo a scendere dalla Forcella di Val d’Arcia alla Forcella Forada ci metto almeno quanto a salire.
Una breve sosta sul pianoro. Approfittiamone per fare qualche foto e mangiarci quei famosi panini e poi ricominciamo a scendere.

Val Fiorentina dal 480

Non per il 480 da cui siamo venuti, che sarebbe noioso, bensì, seguendo le indicazioni per il rifugio Città di Fiume, per un sentiero attrezzato facile facile ma che vi permetterà di menarvela perchè avete fatto la ferrata. All’andata sarebbe stata una vera grana, ma in discesa questa deviazione ci permette di tornare alla quota di partenza in pochi balzi.

Pochi metri dopo la fine del cavo d’acciaio si incontra il sentiero 472 che corre perfettamente piano e parallelo a quello che abbiamo fatto all’andata e che noi seguiremo per tornare al Passo Staulanza.

Appena prima del passo, salendo su una piccola collinetta erbosa, si trova l’ingresso di una galleria artificiale scavata nella roccia. In fondo due aperture permettono di osservare la strada. Da qui si vede il parcheggio dove avete lasciato la macchina. Scommettiamo, però, che da giù non riuscirete a vedere questa apertura?

Si tratta di una postazione di tiro della Grande Guerra. Nascosti nel ventre roccioso della montagna, gli Alpini potevano avvistare eventuali movimenti degli Austriaci e cannoneggiarli prima che avessero il tempo di valicare il passo per riversarsi in Zoldo.

Come la maggior parte delle fortificazioni della valle, anche questa rimase praticamente inutilizzata a causa dell’evolversi degli eventi bellici che spostarono il fronte altrove. Rimane però un documento straordinario e drammatico degli sforzi e delle sofferenze che la guerra portacon sè anche quando poui non viene combattuta.

Questo primo tuffo nel passato, di un centinaio di anni, è solo un aperitivo di quello che ci aspetta, di almeno duecento milioni di anni.

Avete ancora un po’ di energia nelle gambe?
Allora fate un fischio agli amici coi bambini che ci aspettavano giù nel pratone che si riparte!

Niente paura, stavolta sono davvero quattro passi. Si prende il sentiero che gira intorno al Pelmo, ma stavolta nella direzione opposta.
Camminiamo per meno di un’oretta nel bosco, facendo un piacevole saliscendi aiutati da passerelle di legno che aiutano a superare i tratti in cui quando piove si formano dei rigagnoli. Quando il sentiero esce per un attimo allo scoperto, un cartello ci avvisa che sopra le nostre teste si trovano le Orme dei dinosauri.

16-08-2015 - 0003 - Monti dal sentiero dei dinosauri

Un ultimo sforzo. Bisogna salire un per un cento, centocinquanta metri su un sentiero bello ripido, ma ne vale la pena.
Un enorme masso franato dalla parete del Pelmetto domina questa specie di ripida conca.
Qui attorno al ‘70 Vittorino Cazzetta, ha scoperto tre piste di orme appartenenti a tre diverse specie di dinosauri: un carnivoro dell’ordine dei coelurosauri, un ornitischio ed un grosso prosauropode erbivoro.

Sapendolo appare ovvio che quelle file di coppie di buchi nel roccione siano piste lasciate da qualche animale, ma provate a immaginare che non ci siano tutti questi cartelli esplicativi. Provate a immaginare di essere qui solo per fare un giro in montagna e ditemi, sinceramente: avreste capito di avere davanti una delle più importanti scoperte della paleontologia italiana?

No, vero? Eppure Vittorino Cazzetta l’ha capito. Cazzetta era un montanaro. Operaio di mestiere, con una licenza media conseguita sotto le armi e nessuna altra qualifica. Ma uno di quegli uomini per cui la passione vale più di mille scuole. Appassionato escursionista, fotografo, geologo e paleontologo autodidatta, Cazzetta ha avuto un ruolo fondamentale in tante delle importantissime scoperte archeologiche fatte nel secondo dopoguerra sulle Dolomiti.

Di Vittorino parleremo ancora, ma ormai voi sarete stravolti.
Tornate a Forno e concedetevi una pizza con il pastin al Camino Nero o una cena un po’ più raffinata alla Tana de l’Ors (mi ringrazierete), ma andate a letto presto, che domattina ci aspetta una nuova avventura!

NOTA: L’Hotel Posta, il Camino Nero e la Tana de l’Ors, come sempre, non mi hanno chiesto di far loro pubblicità. Però penso che sia mio dovere anche dirvi dove mangiare e dove dormire, se voglio che la vostra esperienza sia bella quanto la mia, no?
Ah, se l’Hotel Posta, il Camino Nero e la Tana de l’Ors volessero coprirmi d’oro (o almeno di marmellata, pizza e spezzatino di cervo) potrebbero farlo scrivendomi qui.

Dolomiti, Val di Zoldo, Veneto

IL CAREGÓN DEL PADRETERNO E ALTRE STORIE (PRIMA PARTE)

Ho sempre ritentuto che andare in salita non fosse un’attività dignitosa per un gentiluomo.
In più soffro l’altitudine: sopra i 1.600 mi manca l’aria, mi si abbassa la pressione e vedo nero.
Sono un uomo di pianura. L’orizzonte piatto mi dà stabilità e mi rifugio nella nebbia come altri si avvolgono nel piumone.

Nonostante gli sforzi di Nonno Motografo non sono mai diventato davvero un montanaro. Fino a un paio d’anni fa se mi avessero detto che avrei passato un’intera settimana in montagna mi sarei messo a ridere istericamente.

E allora cosa ci faccio qui a duemilaequattro, con i piedi a penzoloni nel vuoto cercando di capire se quello che vedo su quella roccia cinque metri sotto sia un segno di via o una macchia di licheni stranamente circolare?

Il fatto è che da qualche anno trascorro gran parte dei miei giorni liberi a scarpinare su e giù per i sentieri della Val Di Zoldo e ho scoperto la gioia che può dare l’ascesa verso le vette, sebbene resti convinto che gran parte dell’euforia che si prova in montagna si debba essenzialmente alla mancata ossigenazione del cervello.

Alzi la mano chi sa dove si trova la Val di Zoldo.
Ok, adesso alzi la mano chi sapeva dove fosse prima di cliccare sul link… Non mentite!

Il Maè, affluente di destra del Piave, ha un corso di poco più di 30 kilometri. La valle che scava è nota, nella parte alta, come Val di Zoldo e, più in basso, con il nome di Canale del Maè.

Dalla Tangenziale di Mestre si prende la A27 sino a Ponte nelle Alpi e da lì la statale dell’Alemagna (SS 51) fino a Longarone.

Per essere appoggiata sulle pendici delle Dolomiti, Longarone ha un aspetto ben strano, dominata com’è da strani palazzi brutalisti in nudo cemento armato annerito dalle piogge e dal tempo.
La cosa non deve stupire.
Chi, arrivando da sud, avesse buttato l’occhio verso la sponda friulana del Piave avrebbe visto, appena a sud del centro del paese, un’alta diga fare capolino da una stretta gola. Si tratta della tristemente famosa diga del Vajont, da cui nel 1963 piovve un’onda di trenta milioni di metri cubi d’acqua che cancellò quasi del tutto l’abitato di Longarone e uccise quasi 2.000 persone.

Dopo il disastro, la ricostruzione. Come sarebbe accaduto qualche anno dopo a Gibellina, non basteranno l’intervento di grandi nomi dell’architettura nè un progetto all’avanguardia per ricostruire l’anima di un paese ferito a morte.

Longarone, oltretutto, sembra scontare una maledizione legata alle dighe.
Risalendo la Canale del Maè, infatti, dopo pochi kilometri incontriamo la diga di Pontesei. Qui nel ‘59 si verificò un Vajont i miniatura: una frana fece tracimare il lago artificiale uccidendo l’operaio di guardia all’impianto.

Proseguendo lungo la Canale all’ombra dei monti del Gruppo del Bosconero si sfiorano piccole frazioni che vedono di rado il sole (ma in compenso a Mezzocanale si può mangiare da Ninetta).
Dopo una quindicina di kilometri nei pressi della località delle Boccole (sede di un leggendario all you can eat di polenta e spezzatino il cui nome preannuncia il modo in cui i clienti passeranno la notte successiva) una galleria passa sotto l’ultima propaggine occidentale del Bosconero e immette nella vera e propria Valle di Zoldo.

Spitz di Mezzodì da casa del Merino

La valle è più ariosa della Canale, ma è dominata da vette imponenti.
Il Maè lungo il suo corso lascia alla sua destra (sinistra, per noi che arriviamo dal Piave) il Civetta, la Moiazza, il gruppo Tamer-San Sebastiano e il gruppo Mezzodì-Pramper; alla sua sinistra (destra, per noi) il Monte Pelmo ed il Pelmetto, il piccolo Punta e, dove la Val Zoldana diventa Canale, il Gruppo del Bosconero.

12-08-2015 - 0007 - Civetta dal versante del Coldai

Ecco, la cima rocciosa su cui mi avete trovato all’inizio di questo racconto è il primo contrafforte (primo venendo dalle sorgent del Maè) del gruppo del Civetta.
Si chiama Cima Coldai e faticherete a trovarla sulle cartine e sulle guide perchè, con i suoi 2.403 metri slm, è poco più di uno gnomo ai piedi delle gigantesche torri del massiccio principale che superano i 3.200.

Ma come capita spesso, anche una montagna piccola regala panorami meravigliosi.

12-08-2015 - 0005 - Dove osano le cornacchie (cima del Coldai)

In particolare da qui si guarda negli occhi la parete Nord-Ovest del Civetta, leggendaria nella storia dell’alpinismo e ancora oggi teatro di nuove imprese.

12-08-2015 - 0006 - La via in discesa (lago Coldai dalla cima del Coldai)

Ma non solo. Ai nostri piedi riluce il verde Lago Coldai e poi lo sguardo spazia a 360° sui pianori della Forcella di Alleghe, sui Lastioi di Formin, sul Mondeval e sul Corvo Alto e, soprattutto, sulla mole compatta del Pelmo: il Caregón del Padreterno.

12-08-2015 - PANO 0001 -  Pelmo e le montagne oltre il Passo Staulanza

Carèga, in Veneto, significa sedia. L’etimologia è, ovviamente, la medesima del Lombardo Cadrega. Caregón, quindi, è il seggiolone, il trono del Padreterno.

Ma da qui non si capisce fino in fondo la ragione di questo buffo soprannome.

E allora è il caso di scendere. La macchia che stavo osservando prima è effettivamente uno di quelli che la guida definisce sbiaditi bolli rossi e, anche se a prima vista sembrava uno strapiombo verticale, esiste effettivamente un sentiero che in pochi minuti porta sulle rive del Lago Coldai (2.172 mslm). Da qui si scende al Rifugio Sonnino, alla Malga Pioda e poi, incrociando le piste da sci,all’attacco della funivia a Palafavera.

Ripresa la macchina si torna a valle sino a Forno di Zoldo, senza dimenticarsi di fare una sosta nella frazione di Dont per riempirsi di gelato con i frutti di bosco.

Macchina? Come sarebbe a dire macchina?!?
Avete ragione. Ed è un vero peccato.
Le strade di queste montagne offrono alcuni dei percorsi motociclistici più belli che io possa immaginare, ma io non ci sono mai venuto in moto.
Sono tanti i motivi, ma il principale è che la moto non è il mezzo ideale per muoversi quando si vogliono fare escursioni in montagna: una volta arrivati alla base del sentiero, infatti, caschi, guanti e protezioni varie rappresenterebbero un problema.

Dalla periferia di Forno si prende la provinciale 7 che porta a Zoppè di Cadore. Passata la frazione di Dozza non potete più sbagliare: si oltrepassa il torrente Ru Torto e risalendone la valle si comincia a salire su un ripido pendio dominato dalla mole aguzza del Monte Punta.
Si supera il cimitero e in pochi tornanti si giunge al paese.

Zoppè è un paese di artisti. Il più illustre è il pittore Fiorenzo Tomea, ma sono molti gli zopparini che si sono cimentati nella produzione artistica: dal pioniere della fotografia Mastro Vittorio Celo Sagui al pittore e scenografo Masi Simonetti sino all’artista del legno Merino Mattiuzzi.
C’è chi imputa questa straordinaria densità di artisti alla bellezza ispiratrice del paesaggio circostante, chi ad uno spirito emulativo che si tramanda di generazione in generazione e chi si rifugia dietro la generica espressione Genius Loci. Ma c’è anche chi ipotizza che un ruolo cruciale l’abbia giocato la pala d’altare attribuita a Tiziano che orna da sempre la chiesa di Sant’Anna ispirando gli abitantidi Zoppè.

Dopo aver reso omaggio a Tiziano proseguite e lasciate l’auto dalle parti dell’eliporto che sovrasta il paese. Incamminatevi nel bosco seguendo le indicazioni per il rifugio Talamini.
Per poco meno di un kilometro si cammina sulla strada asfaltata che porta al rifugio e da lì scende a Vodo di Cadore, ma la si lascia presto, in corrispondenza di un belvedere, per prendere la vecchia strada militare – oggi sentiero CAI 471 – che sale con ampi tornanti in un bosco di Larici.
La strada prosegue quasi dritta sotto la muraglia rocciosa del Monte Penna salendo senza grossi strappi sino a un punto panoramico impressionante.

10-08-2015 - PANO 0001 - Pelmo dal sentiero del Venezia

È da qui che si capisce davvero la ragione del soprannome del Pelmo.
La vetta (3.162 mslm) si innalza appena dalla larga cresta che unisce la spalla est (3.024) e la spalla sud (3.061). Sul versante Nord Ovest la cresta piomba a valle con una serie di ripidissime pareti rocciose appoggiate su un ghiaione lunare; a Sud la Fisura separa il Pelmo dal Pelmetto, più basso del fratello maggiore ma altrettanto massiccio mentre a Est la Forcella di Val d’Arcia lo separa dalle Crode di Forca Rossa.
Ma qui sul versante Sud Est sotto la cresta si apre un vasto circo glaciale, il Vant, che scende dapprima quasi verticale e poi con una pendenza sempre più dolce creando una sorta di gigantesca sedia che, secondo la leggenda, Dio costruì per riposarsi un attimo dopo avere creato le Dolomiti.

Nubi sul Pelmo - 2

Salire sulla sedia del Signore, come immaginerete, non è una cosa semplicissima.
La via più battuta passa per la Cengia di Ball. Di Ball non è una definizione dialettale per sottolinearne la difficoltà; si chiama così in onore dell’irlandese John Ball che per primo giunse in vetta nel 1857.

Io non sono mai salito fino in cima. Dico sempre di volerlo fare ma più vedo video come questo meno ne sono convinto…

Vale però la pena di proseguire ancora per una mezzoretta fino all’attacco della via che porta in vetta.

0020 - Salita al Rifugio Venezia - Dalla casa del Leone

Superiamo il bivio per la Malga Rutorto tenendoci a monte e presto la carrareccia militare piega a destra (diventa il 480) e si trasforma in un sentiero che attraversa dei pascoli attraversati da ruscelli e pozze di risorgiva.

Si cammina ancora pochi minuti facendo un rapido su e giù finchè, in cima a un montarozzo, compare il rifugio Alba Maria de Luca, meglio noto come Il Venezia.

0014 - Salita al Rifugio Venezia - Bivacco invernale

Dalla terrazza del rifugio si ha un colpo d’occhio impressionante sul monte Antelao, il gigante che domina la Valle del Boite.

10-08-2015 - PANO 0002 - Antelao dal Venezia

Ma a rubare la scena è il Pelmo alle nostre spalle. Siamo proprio ai piedi del trono e possiamo seguire con l’occhio e con il dito tutto il percorso della via di Ball che parte proprio a pochi metri da qui.

0013 - Salita al Rifugio Venezia - Monte Pelmo

Sono molte le scelte davanti a noi. Non volendo affrontare l’ascesa alla vetta, potremmo proseguire sul sentiero 480 e, attraverso un tratto attrezzato noto come Sentiero Flabiani, alla Forcella Val d’Arcia con il suo panorama impressionante. Oppure potremmo ritornare sui nostri passi, lasciarci a sinistra il 471 e proseguire verso il Pelmetto o verso il Punta.
Ma per oggi abbiamo già fatto abbastanza strada. E poi c’è ancora un posto che voglio farvi conoscere.

Ritornate verso Zoppè, praticamente all’eliporto. Avete notato le caprette vallesane che pascolano sulla scarpata? Le mucche grigio-alpine che guardano il tramonto sul Civetta?
Allora avrete notato anche la Malga Livan.
Qui troverete Deborah e Alessandro. Ascoltandoli parlare non potrete non essere contagiati dalla loro passione per gli animali e per la montagna. Ma soprattuto per il latte ed il formaggio.

Un post condiviso da Il Motografo (@ilmotografo) in data:

E se non basteranno le loro parole, saranno i loro taglieri a convincervi. Certe caciotte di latte crudo, certe ricotte, certi speck…

Non vi piace il formaggio? Non so perchè io perda tempo a parlare con voi, onestamente, ma c’è una soluzione anche per voi (oltre alle crostate di Deborah, intendo).
Scendete verso Forno, ma fermatevi un paio di curve prima, a Dozza.

Qui oltre alla bella chiesa gotica di San Floriano (X secolo) troverete la pasticceria Baldini con il suo strudel leggendario che concluderà degnamente la nostra (prima) giornata in Zoldo.

(CONTINUA)

Nota: Ninetta, L’Insonnia, la Gelateria Pelmo, la Malga Livan e la Gelateria Baldini non mi danno, purtroppo, un euro. Non si tratta di pubblicità interessata. Anzi, non vorrei mai trovarci troppa folla. Però datemi retta, se passate da queste parti non mancateli e mi ringrazierete.