IL SEPRIO LONGOBARDO

A nord di Milano esiste la celeberrima fascia dell’imperativo*. Un’area relativamente compatta in cui tutti i nomi dei paesi finiscono in -ate, come se, appunto, fossero delle esortazioni.

Gallarate, Tradate, Malnate. Liscate, Pescate, Grandate. Trecate, Galliate, Samarate. Garbagnate, Novate, Cesate e Baranzate. Gornate, Mozzate, Turate, Fate, Baciate, Lettera e Testamento.

L’origine di questi nomi è talvolta celtica e talvolta latina, fatto sta che è estremamente frequente in una determinata area tra il Piemonte Orientale e la provincia di Brescia e praticamente assente in tutto il resto d’Italia. Non c’è una spiegazione per questo, salvo forse l’innata assertività delle popolazioni di queste parti…

Cairate confina con Lonate (Ceppino, non quella che non deve essere nominata), Tradate e Rovate ed è – come potete immaginare – proprio al centro di questa fascia, ma io non sono certo venuto fino a qui per parlare di toponomastica.

La mia meta è il monastero benedettino di Santa Maria Assunta.

Lo scorso anno ho scritto all’assessorato al turismo della Provincia di Varese per richiedere la mappa della Via Verde Varesina.
L’ho fatto come si compra un biglietto della lotteria: certo che non avrei mai avuto risposta.

fiorinfiorello 3

E invece un mesetto più tardi mi è arrivata una busta contenente la mappa che avevo chiesto e, per giunta, tutta una serie di opuscoletti e depliant sulle destinazioni turistiche della Provincia. Che uno non lo direbbe mai, ma nasconde tante piccole perle sconosciute.

È qui che ho sentito parlare per la prima volta di Cairate.
È che io sono una bestia disordinata, e l’opuscolo è rimasto appoggiato insieme a molti altri sul ripiano “gite da programmare” del mio piccolo ufficio casalingo.
(Ok, ok… Il ripiano in questione è il davanzale del bagno. Perchè, voi dove studiate i vostri itinerari, normalmente?)

Poi qualche tempo fa il buon M. mi ha parlato nuovamente del Monastero di Cairate, riaprendomi quel piccolo cassettino della memoria in cui avevo stipato il ricordo.

La leggenda vuole che il monastero sia stato fondato – come dono per grazia ricevuta – da Manigunda, la nipote del re longobardo Liutiprando.

Di questo, naturalmente, non esistono prove, e Manigunda probabilmente non è mai esistita, anche se c’è chi dice che il suo fantasma viva ancora tra le mura del convento.
Ciononostante l’origine longobarda del monastero è provata, tra l’altro, dal fatto che pur trovandosi nella diocesi di Milano, il monastero fu sempre soggetto al vescovo della capitale Pavia.

Il monastero di Santa Maria Assunta ha avuto una storia quasi millenaria, ma dopo un paio di secoli di progressivo declino culminati con la soppressione napoleonica, la sua struttura è stata abbandonata, smembrata in diverse proprietà e utilizzata per lo più come struttura agricola.

Tessitura muraria

“L’ultima volta che sono entrato qui prima del restauro – mi dice la guida volontaria che mi sta accompagnando tra le stanze del monastero – questo locale, che probabilmente era il refettorio delle monache, era una stalla. Dove adesso ci sono quei pannelli c’erano le mucche e i vitelli”.

Un primo passo per il recupero della struttura si ha negli anni ‘60, quando lo stabile viene messo sotto tutela dalla sovraintendenza. Il comune ne acquista metà, ma l’altra metà resta di proprietà di una famiglia del posto con cui non si trova un accordo. Solo nei tardi anni ‘80, con l’intervento della Provincia, la struttura torna all’originaria unità e si iniziano gli scavi archeologici.

chiostro 2

Scavi durante i quali si scopre che prima del monastero, di Manigunda, e dei Longobardi qui c’era una Villa romana e, proprio dove sarebbe sorta la sala conciliare delle monache, una piccola necropoli.

L’intera storia architettonica del monastero, mi spiega la guida, è fatta di riuso del materiale esistente. Accanto alle tombe romane ne sono state trovate tre di epoca longobarda. Tre tombe privilegiate, la cui struttura in pietra decorata è fatta recuperando steli e bassorilievi di epoca precedente.

Sepultura con materiali di recupero

L’architrave con il fregio con le colombe – da sempre considerato il simbolo del monastero – non è stata trafugata negli anni di abbandono perchè era stata utilizzata come gradino di una scala.

colombe 2

Il cosiddetto sarcofago di Manigunda è privo di coperchio – mi dirà poi – perchè negli anni era stato probabilmente usato come vasca di un lavabo.

Tutto sommato questo è uno degli aspetti più interessanti della struttura. Rimane molto poco dell’atmosfera del monastero. Le grandi sale sono tendenzialmente vuote ed allestite come museo (si sta anche preparando il museo multimediale dei Longobardi, che aprirà probabilmente alla fine del 2017), ma in questo concatenarsi di modifiche, riusi e riscoperte si riesce a vedere e a seguire il corso della storia.

tamburi

Tra una teca con i resti delle maioliche delle monache e il ricco appartamento della Badessa Castiglioni, arriviamo a una porticina che dalla balconata del chiostro immette nella vecchia chiesa. E mi trovo davanti l’incredibile affresco di Aurelio Luini (figlio di Bernardino).

Panorama Luini

La rappresentazione della vita della Vergine, dalla nascita all’assunzione, è imponente e coloratissima e il punto di vista che si ha da questa balconata – che pure non esisteva ai tempi del Luini – permette di apprezzare l’opera da una posizione privilegiata.

affresco

Attorno alla metà del 500 i Longobardi passano l’Isonzo e entrano in Italia. La resistenza bizantina è debole e in pochi anni il loro dominio si estende dal Friuli al Piemonte Orientale e poi, una manciata di anni più tardi arrva ad includere la Toscana, l’Umbria, il Lazio e la Campania. Cairate, quindi, era solo uno dei loro insediamenti, e nemmeno il più importante. A pochissimi kilometri sorgeva il castrum di Castelseprio con l’annesso Monastero di Torba.

Proprio il Monastero di Torba – oggi nel territorio di Gornate Olona – è la mia tappa successiva.
Se a Cairate l’atmosfera è stata irrimediabilmente guastata dalle trasformazioni architettoniche e il principale motivo di interesse sono le opere conservate, a Torba è tutto il contrario.
Sebbene anche qui le monache avessero lasciato il posto ai mezzadri, la struttura del convento non aveva subito particolari modifiche e, quando negli anni ‘70 il FAI ha iniziato l’opera di recupero del monumento, il restauro ha dovuto rimediare ai segni del tempo e dell’abbandono, ma non cercare di intuire una forma sotto decine di strati di modifiche.

Il complesso monastico

Appollaiato su un fianco della collina di Castelseprio, il monastero comprende una piccola chiesetta di pietra e mattoni, un fienile, il refettorio – oggi ristorante – con il forno per il pane a disposizione dei pellegrini ed una torre di avvistamento di epoca romana.

chiesa dalla torre

Appena sopra la chiesa inizia un tratto di mura dell’insediamento di Castelseprio, che sta sulla cima della collina.

Piccolo, raccolto, immerso nel verde, il monastero di Torba è un gioiellino fatto tutto di atmosfera. La quiete della valle dell’Olona – sebbene la zona industriale sia a un tiro di sputo – è come amplificata dalla semplicità delle costruzioni.
La chiesa, di pietra e mattoni, è completamente spoglia. Si intuiscono appena le tracce degli affreschi del nono secolo – ormai inintelleggibili – e solo nella piccola cripta absidale rimane qualche traccia di decoro scultoreo.

Abside

È nella torre che si nasconde la sorpresa. Il livello più basso è ancora spoglio, fedele alla vocazione militare dell’edificio, ma al piano superiore si apre una stanza quadrata, illuminata da grandi finestre decorata da affreschi che descrivono la glorificazione di Gesù.

Cristo imberbe (?)

Interessante è il dettaglio delle monache rappresentate negli affreschi, prive di lineamenti riconoscibili, come a voler sottolineare la perdita di individualità sottesa alla scelta monastica.

le monache senza volto

La fortificazione di Castelseprio nasce, a quanto pare, nel quarto secolo come linea difensiva contro le migrazioni dei popoli germanici ma, ironia della sorte, oggi è ricordato soprattutto per le testimonianze della presenza dei Longobardi – germanici – nel varesotto.

Circondato da un bosco di latifoglie, a poche decine di metri dal centro del paese odierno, l’insediamento era circondato da spesse mura in pietra – le stesse visibili a Torba – e da un fosso solcato da un ponte di cui oggi restano solo i piloni.

Piloni del ponte di accesso al Castrum

All’interno della cerchia si indovinano i resti di alcuni edifici abitativi – di cui resta solo la pianta – e di almeno due grandi chiese: San Giovanni Evangelista, di cui resta parte dell’abside e del battistero, e San Paolo, di cui è visibile l’abside e parte della pianta esagonale. Più in là la cosiddetta Casaforte, unico edificio non religioso di cui resti qualcosa più che la pianta, sorge isolata in fondo a un pianoro che domina la valle dell’Olona. Ancora più in là, dove le mura iniziano a scendere verso Torba, un piccolo convento di molto successivo ospita l’antiquarium dove sono raccolti i reperti ritrovati in loco coprendo un arco di tempo che va dall’età del bronzo al ‘200.

San Giovanni Evangelista da San Paolo

Proprio alla fine del ‘200 risale la distruzione dell’insediamento nell’ambito di una guerra tra Milano e l’allora autonomo Contado del Seprio.
I Milanesi vinsero e l’arcivescovo Ottone Visconti ne decreterà l’abbandono completo, salvo permettere l’uso delle chiese, che resteranno frequentate sino al ‘600 inoltrato.

Pavimentazione del fonte battesimale di San Giovanni Evangelista

Se pure abbandonata, la vecchia Castelseprio non sarà mai del tutto dimenticata. Studiosi ed eruditi ne studieranno i resti a più riprese e già nell’800 si avranno attività – sebbene per certi versi predatorie – volte a valorizzare la memoria del luogo.

San Paolo

Ma è solo nel ‘44 che furono (ri)scoperti gli affrechi di Santa Maria Foris Portas.
Sita fuori dal paese, come dice il nome, Santa Maria è una chiesa a tre absidi databile tra il quinto e il nono secolo che, nel ‘900, era ormai utilizzata come magazzino agricolo.

Santa Maria foris portas

Sull’abside di fondo è visibile un ciclo di affreschi impressionante, seppur danneggiato dal tempo.
Ora, io non sono uno storico dell’arte, e di pittura medievale capisco davvero poco, ma sono abbastanza sereno nel dire che la delicatezza del disegno e del colore di questi affreschi è qualcosa di straordinario.

Affresco (Adorazione forse)

Maria

Sembra – per lo meno all’ignorante che sono – che l’anonimo autore di queste opere abbia lasciato da parte tanto gli effetti cromatici forti quanto la ieraticità dei personaggi per privilegiare un linguaggio narrativo.
Se dovessi descriverli – ma per fortuna ho delle foto da mostrarvi – parlerei quasi di illustrazioni più che di affreschi.

Bambin Gesù

Nonostante le tante campagne di studio, la datazione degli affreschi è ambigua.
Se è abbastanza certo che l’anonimo Maestro di Castelseprio non avesse un’origine culturale Longobarda, gli studiosi non sono concordi: una scuola di pensiero si concentra maggiormente su aspetti quali tratto e impostazione spaziale e parla di un pittore di tradizione bizantina che potrebbe aver operato nel VI, VII secolo; un’altra scuola, che si concentra di più sull’impostazione drammatica e narrativa del ciclo, parla di un autore dell’VIII secolo inoltrato, inserito in un contesto di revival ellenistico proprio della cultura carolingia. Praticamente una sorta di vintage dell’alto medioevo.

“Un paio d’anni fa – dice il custode – sono venuti qui tre professori: un italiano e due stranieri. Hanno chiuso la chiesa per una settimana. Hanno fatto i rilievi, i test, hanno discusso per giorni interi. Se ne sono andati così come sono arrivati, ognuno con la sua idea.”

Sia come sia, a me della datazione frega il giusto.
A me interessa la meraviglia di questo luogo. Il contrasto tra l’odore della campagna qui fuori e quello della pietra e dei mattoni, la luce che filtra dalle monofore, l’essenzialità di questo spazio vuoto e calmo e la potenza di questi affreschi.


*= Va bene, me la sono inventata in questo momento, ma non vedo perchè non possa essere accettata a livello accademico.

[ssba]

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