Category Archives: Piemonte

Italia, Piemonte, Vercelli

NESSUNO SI ASPETTA L’INQUISIZIONE SPAGNOLA

Il gran teatro del Mondo…

Dici Barocco e la mente corre subito allo sfarzo e alla magniloquenza.
Ori, stucchi, decorazioni.
Affettazione e frivolezza.
Horror vacui e volontà di stupire.

Tutto vero, ma non solo.

Perchè l’avvento del Barocco coincide con l’età della riforma e della controriforma.
Delle guerre di religione che per quasi due secoli hanno insanguinato l’Europa.
Un clima cupo, di intransigenza religiosa,di censura e d’inquisizione.

Un periodo in cui la chiesa cattolica perde potere a Nord-Ovest sotto i colpi della riforma protestante e nello stesso tempo è minacciata a Sud-Est dagli Ottomani che controllano fermamente i luoghi santi mentre consolidano il loro dominio sui Balcani.

Insomma, da una parte i protestanti propongono una visione del cristianesimo innovativa e dirompente – eretica, secondo il Papato – e dall’altra i continui scontri con l’impero Ottomano impediscono ai cattolici europei i pellegrinaggi in Terrasanta.

I Sacri Monti arrivano in questo contesto.
Riproduzioni in scala dei luoghi del Vangelo. Surrogato del pellegrinaggio in Palestina e, contemporaneamente, strumento per propagandare e mantenere l’ortodossia del racconto evangelico.

La cattura di Gesù

Crea, Orta, Varese, Oropa, Ossuccio, Ghiffa, Domodossola, Valperga.
Tra la fine del ‘500 e i primi anni del ‘700 in Piemonte e in Lombardia, nelle zone dove era più forte il pericolo protestante, i Sacri Monti Barocchi spuntano come funghi ricalcando il prototipo creato all’inizio del sedicesimo secolo qui, a Varallo Sesia.

Tutti insieme, dal 2003, costituiscono il Sito Unesco dei Sacri Monti Barocchi del Piemonte e della Lombardia.

La Varallo del ‘500 è zona di confine tra il Ducato di Milano e la Savoia, apparentemente periferica.
Ma tra Patari, Umiliati, Cataro-Albigesi, Zelanti, Dolciniani, Apostolici e Valdesi, già da qualche secolo la chiesa cattolica non aveva gran che da star tranquilla.

E con i protestanti a due passi, appena oltre le alpi, a partire dal tardo ‘500 la situazione non poteva che farsi via via più tesa.

E così il progetto del Sacro Monte, sostenuto con forza dal Cardinale Carlo Borromeo (no, non è quello dei Promessi Sposi, quello è suo cugino Federico) acquista una fondamentale importanza dottrinale.
Non più semplice riproduzione dei Luoghi Santi ma vero e proprio catechismo tridimensionale.

Anche perchè il buon cattolico non ha mica una Bibbia in Italiano da leggersi prima di dormire, è robaccia da protestanti quella…

Visitazione

Arrivo a Varallo nella tarda mattinata.
È solo il primo weekend di primavera, ma il termometro della farmacia segna quasi trenta gradi.

Incosciente come solo un motociclista ad inizio primavera sa essere, guardo con sdegno la stazione della funivia e, scuotendo la testa, mi incammino sulla strada lastricata che sale sulla collina.

Il Frate Bernardino Caimi, fondatore del santuario, aveva fatto le cose a modino, devo dire.
Dovendo riprodurre i luoghi santi ha scelto una collina che potesse in qualche modo ricordare il Calvario.

Sono poco più di duecento metri di dislivello, ma quando arrivo in cima sono uno straccio.
Affannato. Madido di sudore. Incurante della sanità del luogo impreco a mezza bocca contro la giacca, che pesa una tonnellata e non entra nello zaino, contro il sole, contro la salita e soprattutto contro di me che non ho voluto prendere la funivia per risparmiare quattro euro.

E la salita a piedi non mi vale, a quanto pare, nemmeno un’indulgenza plenaria…

La Magnolia e la cappella

Poco male, bevo un sorso d’acqua, varco il portone e inizio la mia visita.

Ogni cappella, ogni stazione, racconta un momento diverso della storia di Gesù, dal peccato originale (inteso come la ragione della stessa venuta di Cristo sulla terra) sino alla resurrezione.

Il Sacro Monte che vediamo oggi è il risultato di quattro fasi artistiche e ideologiche profondamente diverse.

Parte della struttura architettonica delle cappelle risale alla fine del ‘400, al progetto di Nuova Gerusalemme ideato dal francescano Bernardino Caimi.
Un secondo strato è quello curato da Gaudenzio Ferrari nella prima metà del ‘500.
Galeazzo Alessi, nel tardo ‘500, prende le redini della fabbrica del Sacro Monte sulla scorta del progetto del Borromeo.
Infine il ‘600. Sotto la direzione del vescovo Carlo Bascapè, già collaboratore di San Carlo, Giovanni D’Errico, il Tabacchetti, il Morazzone e molti altri grandi artisti del tempo si adoperano per riorganizzare integralmente e completare l’opera, adattandola definitivamente agli indirizzi spirituali del Concilio di Trento.

La cattura di Gesù

Una caratteristica comune a tutti e quattro i periodi è lo straordinario naturalismo delle statue. Madonne, Cristi, apostoli… Tutti modellati, chiaramente, su modelli reclutati nella zona. Potrebbero essere i trisavoli del barista, del parroco, del farmacista del paese.

Il vecchio Giuseppe, segnato dal tempo e dal lavoro. La samaritana al pozzo, con le sue guance rubizze per l’aria frizzante di montagna e le braccia muscolose da lavoratrice.
O, ancora, il bambinello portato alla circoncisione. Bianco e vermiglio, come nella canzone di De Andrè, in braccio ad una madre di cui pare di sentire il pesante accento vercellese.

Circoncisione (Madonna con Bambino)

Le cappelle sono protette da cancellate e vetrate. Spesso c’è solo un piccolo varco da cui osservare la scena. E quasi sempre è piazzato ad altezza nanica. O forse all’altezza di un pellegrino inginocchiato?

Fatto sta che dopo pochissime stazioni mi esplode una cervicale mostruosa.

Giuseppe alla natività

La stratificazione di diversi periodi artistici è il motivo per cui in certe cappelle l’ambientazione è incoerente rispetto alla scena raccontata.

Lazzaro, per dire, esce dal sarcofago – grazie ai buoni uffici di un Gesù che pare il bassista di un gruppo stoner – in una sala sontuosa, piena di gente vestita a festa. Non esattamente quello che ti aspetti da un funerale.

La resurrezione di Lazzaro (Gesù)

Una signora, intenta a sgranare un rosario le cui perle continueranno a scorrere per tutta la nostra conversazione, mi spiega che in origine la cappella era dedicata alle nozze di Cana ma quando a fine ‘500 fu trasformata nella scena odierna, gli affreschi di Gian Giacomo Testa rimasero sulle pareti.

La resurrezione di Lazzaro

– Mi spiace che lei ora lo vede così, con tutte le statue polverose e in disordine. Sa, non c’è più la manutenzione che c’era quando ero bambina.
– Beh, ma adesso con l’Unesco saranno arrivati degli investimenti, no? Ho visto che la cappella della strage degli innocenti è in restauro.
– Oh mamma… non mi parli dell’Unesco. L’Unesco è un’istituzione anticristiana per definizione. Loro vogliono ridurre il Sacro Monte ad un museo, ma questo è un santuario. Altro che professori e guide turistiche, qui servirebbero i preti.

Proseguiamo la conversazione affrontando la messa postconciliare (Gli esorcisti dicono che la messa in latino piace a Dio, quella in volgare piace al Demonio, che la usa per entrare nelle menti dei fedeli) e sfiorando la situazione della chiesa italiana (il problema, caro Lei, è che in Italia ormai la Chiesa non conta più nulla. È che manca un’intellighenzia cattolica che sappia orientare la politica nel segno dell’ortodossia. E i veri fedeli sono costretti a guardare all’estero).

Ci salutiamo (insiste per darmi due baci sulle guance) e mi allontano con i brividi lungo la spina dorsale, sapendo che l’estero a cui si riferisce è, con ogni probabilità, la Polonia di Radio Maryja.
Lei resta lì a sgranare i suoi rosari pregando anche, immagino, perché io rinsavisca dal mio folle ateismo.

Quanto alla mancanza di importanza della Chiesa nella vita politica del Paese, pochi mesi dopo un Ministro della Repubblica avrebbe baciato il rosario e invocato il cuore immacolato di Maria in un’aula parlamentare senza essere sottoposto ad un TSO.
Temo che la mia signora varallina ne sarà stata piacevolmente impressionata.

Lamentazione sul Cristo Morto

Le quarantaquattro cappelle si susseguono con un ritmo serrato.
Ad impressionarmi di più sono le cappelle che ritraggono momenti intimi, come la Natività, con un Giuseppe vecchio, stanco ed angosciato o il commovente compianto sul Cristo morto, e scene quotidiane come quella della Samaritana al pozzo dove un giovane Gesù siede appoggiato all’orlo del pozzo in una posa che non ha nulla di costruito o di ieratico.

Gesù al pozzo

Ma sono affascinanti anche le scene più epiche, come l’arrivo dei Magi a Betlemme con un codazzo di servitori, cavalli e cammelli o la caleidoscopica azione di massa, con centinaia di figure e dettagli minutissimi, della salita al Calvario.

Salita al calvario

Il percorso culmina, giunti sulla cima della collina, con la Crocifissione di Gaudenzio Ferrari.

Crocifissione

Una sorta di opera d’arte totale in cui gli affreschi e le statue si fondono al punto che non è quasi possibile capire dove finiscano gli uni ed inizino le altre.
Le tre croci, il Cristo, i Ladroni contorti dal dolore.
E poi le donne in lacrime, i Legionari, il popolo… Una folla colratissima, indaffarata, mobile, se ha senso usare questo aggettivo per delle statue.

Crocifissione (il ladrone)

Peccato solo non si possa realmente entrare nella cappella e si sia obbligati a guardare questo capolavoro attraverso un vetro blindato spesso quattro dita…

Naturalmente, guardando le cose da un punto di vista devozionale, il culmine del percorso dovrebbe essere in realtà la resurrezione di Gesù, rappresentata dalla fontana al centro della piazza, davanti alla basilica.

Chi mi conosce sa che io non amo l’architettura barocca.

Dove “non amo” è decisamente un eufemismo per ingentilire l’immagine di ruspe, di palle demolitrici e di tritolo che l’idea di barocco fa affiorare nella mia mente

E infatti è per questo che della basilica dedicata alla Vergine non ho parlato e non ho nemmeno intenzione di parlare più di tanto.
Chi tra voi ama il genere, comunque, potrà finalmente trovare qui gli ori, i marmi, gli stucchi, i trompe l’oil e tutto quell’armamentario estetico che normalmente si associa al concetto di Barocco.

La basilica

Io, personalmente, vi aspetto giù al parcheggio.

Piemonte

LA LUCE DELLA RIVALTA (SCRIVIA)

Nel 1960, mentre inaugurava la tratta finale della A7 che congiunge Tortona con Milano, il Presidente Gronchi non poteva sapere che quell’opera avrebbe trasformato la Valle del Po in una visione sfocata per il milanese medio. Una vaghissima immagine, verde come i campi di mais e le risaie o nera come la terra in autunno, percepita con la coda dell’occhio mentre l’auto viaggia veloce sul lungo rettilineo che porta verso Genova, verso il mare.
Viaggiando si intravedono solo pochi stabilimenti industriali e il mitologico Motel K, per il resto la strada si tiene lontana da città e paesi.

Ma un Motografo è sempre un Motografo e anche quando sta correndo al mare ha sempre un occhio alla ricerca di qualcosa di nuovo da esplorare.

E così, una dozzina di anni fa, la mia attenzione è stata catturata da un gruppo di edifici di mattoni scuri nei pressi di Castelnuovo Scrivia.

Sebbene non molto diverso dalle altre cascine della zona, dall’autostrada si presenta come un’imponente complesso murato, dominato da una chiesa evidentemente sproporzionata alle esigenze di una comunità agricola.

Ovviamente non ho mai avuto il tempo di uscire sulla statale per indagare cosa fosse e ovviamente, ogni volta, già all’altezza di Serravalle me ne ero dimenticato.

Solo di recente, in uno dei miei viaggi virtuali con Street View, ho capito cosa fosse quel posto.

Perché fate quella faccia? Cosa vuol dire che sono l’unico a fare i viaggi virtuali? Mi state prendendo in giro?

Dicevo, solo di recente ho capito che il mio complesso di mattoni è semplicemente la parrocchia di Rivalta Scrivia.
La struttura, scopro, ha radici nella seconda metà del XII secolo.

Interessante, ma ancora non abbastanza per eleggerla a meta di uno dei miei giri.
Diciamo che ci sono finito solo di ripiego.
La mia vera meta era Libarna, antica città Romana al fondo della Val Scrivia che, ancora una volta, mi ha sempre chiamato dai cartelli della Serravalle senza mai convincermi ad abbandonare la rotta verso il mare.

Ma oggi (la seconda domenica di Aprile del 2018) il tempo non è un gran che, e il mare non pare un’opzione.
Così, dopo aver verificato gli orari d’apertura degli scavi (), decido di muovermi verso Serravalle Scrivia.
Il cielo sopra la mia testa inizia ad assumere un aspetto drammatico quando raggiungo il piccolo comune piemontese sede del posto più brutto del mondo.

Mi libero dal traffico dei forzati dello shopping appena in tempo per rimanere bloccato dal passaggio di una gara ciclicstica amatoriale. Ma niente può abbattermi oggi, sto finalmente andando a visitare Libarna.

2018-05-08_01-18-22

Posteggio davanti alla balconata dalla quale si può godere di una vista d’insieme del sito e torno verso la biglietteria.
Suono il campanello e attendo. Nessun segno di vita.
Suono nuovamente, Attendo.
Nulla…
Guardo meglio…

2018-05-08_01-12-45

Ecco, appunto. Scemo io che mi fido di internet…

Se solo ci fosse stato qualcuno (che so, il bigliettaio) oltre a sentirmi lanciare imprecazioni impressionanti per varietà e vigore, mi avrebbe visto compulsare nervosamente il mio famigerato elenco di mete da visitare in cerca di un ripiego.

La Val Borbera e la Val Curone? No, non è proprio cosa. Già una volta il clima da quelle parti mi ha fermato*.
La diga del Brugneto? No, ormai è tardi, non riuscirei a fare il giro del lago a piedi, non ne val la pena.
Acqui Terme? Con sto tempo?
‘Spetta! Ecco! L’abbazia di Rivalta è qui a due passi.

Un bel 180° e via verso nord.
Arrivo qualche minuto prima dell’apertura pomeridiana (l’abbazia apre alle 15.00) e ne approfitto per girare per i campi cercando la visuale migliore (ricavando un po’ di belle foto e coprendomi di fango sino alle orecchie).

La bassa e l'abbazia

Nata come comunità spontanea attorno al 1150, è lungamente guidata da comunità dall’abate Ascherio che nel 1180 la pone sotto la tutela dei Cistercensi dell’abbazia di Lucedio (Vercelli) per proteggerla dalle mire del Vescovo di Tortona..
Come sempre, l’arrivo dei Benedettini Cistercensi si traduce in un periodo di forte espansione della comunità ed in una riorganizzazione completa del monastero, che viene di fatto riedificato.

In un’ottantina d’anni la chiesa di Santa Maria ed il complesso residenziale sono terminati. La costruzione è lineare e segue i dettami del gotico cistercense: una pianta a croce latina a tre navate dalle linee pulitissime e semplici. Nell’architettura cistercense i fronzoli superflui sono banditi e i pochissimi ornamenti che ingentiliscono gli elementi strutturali sono portati all’estremo della stilizzazione.
Minimal, diremmo, se fossimo degli orrendi hipster in coda per scroccare Nastro Azzurro calda e Dixie rafferme ad un evento esclusivissimo del fuorisalone.

Abbazia di rivalta

Il rigidissimo minimalismo viene mantenuto per un paio di secoli, fino all’intervento di Franceschino Boxilio e della sua bottega, autori del bellissimo apparato di affreschi.
I simboli dei quattro evangelisti nella piccola cappella che funge da abside della navata destra sono commoventi nella loro semplicità quasi popolaresca.

San Luca Evangelista

Come dicevo, dall’autostrada – e dalle risaie in cui mi sono avventurato poco fa – l’abbazia ha un aspetto severo ma imponente. Eppure la facciata della chiesa non sembra all’altezza della zona absidale.
La cornice in mattoni rossi mette in evidenza la struttura interna delle tre navate creando tre archi che sembrano “tappati” da un muro di pietra intonacata,
Un’apparenza dimessa che contrasta con l’edificio che sorge addossato a ciò che rimane del monastero: un palazzo di aspetto seicentesco con un bel cortile loggiato che si apre sul sagrato della chiesa.

Abbazia di Rivalta Scrivia - Chiesa di Santa Maria e Palazzo Airoli

Proprio il palazzo costruito nella seconda metà del ‘600 per il Marchese Agostino Airoli, che nel frattempo era diventato titolare del feudo di Rivalta, è la causa di questa apparenza sottotono.
Il palazzo è stato edificando riconvertendo – sarebbe meglio dire demolendo e riedificando – l’ala dei monaci del vecchio monastero ormai ridotto a commenda, dopo che già l’ala dei conversi era stata demolita qualche decennio prima.

Ma il Marchese non era soddisfatto della sistemazione.

‘Sta chiesa così vicina al mio cancello – diceva – soffoca il mio bel palazzo.
Chi passa non si accorge di quanto bello sia, quanto raffinato, quanto imponente.
C’ho proprio gusto ad essermi fatto fare il palazzo alla moda e poi quei quattro gatti che mi vengono a trovare fino a qui fanno caso solo a questa vecchia chiesaccia di mattoni!

Abbazia di Rivalta

Lamentati oggi, lamentati domani, il Marchese riuscì a convincere il Vescovo di Tortona. Certo, dovette pagare di tasca sua il restauro di quel che sarebbe rimasto – e per un genovese deve essere stato un compromesso doloroso – ma l’Airoli fu autorizzato a far demolire la prima campata per “farvi piazza”.

Il palazzo non è visitabile ma, da quello che sono riuscito a vedere attraverso la recinzione, dietro al corpo loggiato è nascosto un bel parco con tanto di pavoni che scorrazzano tra i cespugli fioriti.

Nonostante la mutilazione, internamente la chiesa appare grandiosa. Grandiosa ma, al tempo stesso, raccolta. Intima.
Miracoli del gotico.

San Marco Evangelista

Dalla navata destra, vicino alla bella cappella Boxiliana di cui vi ho già parlato, si passa in sacrestia e poi alla Sala Capitolare, l’unica parte superstite dell’antico monastero. Il capitolo è alla base della vita monastica cistercense. Qui si prendono le decisioni e la comunità, in un’ammirevole democrazia, elegge il suo abate.

Ed è sempre qui che – in un’atmosfera degna de Il nome della rosa – si svolge la pubblica confessione dei peccati di ogni fratello, la cui punizione è deliberata ed eseguita direttamente dall’assemblea. Sarò suggestionabile, ma mentre me ne sto seduto qui a guardare la luce che filtra dalle trifore in fondo alla sala, mi corre un brivido lungo la schiena al pensiero degli atti di devozione, di umiliazione e di fanatismo che devono aver avuto luogo tra queste mura.

*= In verità io un sopralluogo l’ho fatto, ma se tutto va come deve ne parliamo prossimamente.

Lago d'Orta, Novara, Piemonte

IO NON SONO UN CANOISTA – AD ORTA IN KAYAK

A poco più di un anno da quando ci ero venuto con Abdul Mariscos, sono tornato sul Lago d’Orta.

Anche questa volta tutto nasce da uno scambio di messaggi, in questo caso con il mio amico F.

“Tu che sei un canoista…. – mi scrive una sera di Agosto – Ho comprato un kayak gonfiabile a due posti”
“Io non sono un canoista. Comunque figata, appena torno dalle vacanze ci andiamo a fare un giro!”

Una di quelle tipiche conversazioni che si perdono nel tempo, penserete.
E invece no. Diversamente da me F. è una persona seria, e non si dimentica le cose così facilmente.

E così un sabato sera saluto gli amici un po’ prima del solito.
“Domani mattina vado a fare un giro in kayak con F.”
“Dai, bello!
– dicono tutti – E poi così ti alleni un po’, visto che sei un canoista.”
“Io però non sono un canoista!”

Così l’indomani, alle 8.00 di domenica mattina, Aiko esce dal box borbottando con disappunto.

Circonvallazione, Ippodromo, Monte Stella, A8.
Curvone di Gallarate, Diramazione Gattico, A26, Svincolo di Arona.
Poi da lì è un attimo (se non sbagliate strada come me). Si segue per Borgomanero, si attraversa Gozzano (ripetendo a macchinetta nel casco Chi sono? / È tanto strano / fra tante cose strambe / un coso con due gambe / detto guidogozzano!) e in un attimo si arriva ad Orta.

A Orta non si parcheggia. Nemmeno per scherzo. Credo sia l’unico comune al mondo dove danno le multe per divieto di sosta anche ai pedoni.
Forti di questa certezza io e F. abbiamo appuntamento su una spiaggetta appena oltre più a nord, a Pettenasco.

F. arriva poco dopo di me con uno zainone che sembra un vecchio Invicta da campeggio di quelli che usavamo da ragazzini in interrail. Lo apre e ne estrae questo:

kayak chiuso

Da un’altra borsa estrae la pompa e, in pochi minuti, la situazione è questa:

pronti a partire

“Oh, partiamo piano. Sono completamente fuori allenamento e ho le braccia di legno.”
“Ma va, tu sei un canoista, figurati se sei fuori allenamento.”
“Ma che cazz.. Io non sono un canoista!”

E qui F. mi guarda con gli occhi fuori dalle orbite.

“Come non sei un canoista?!? Scusa, tu non fai canoa?!?”

Povero, non ha mica del tutto torto. Mi spiego: chiunque quando sente parlare di canottaggio pensa che le imbarcazioni su cui si pratica si chiamino canoe. E invece no!

Canoa è, secondo il Treccani, una “piccola imbarcazione, di forma stretta e allungata [….] che viene manovrata con la pagaia”.
La pagaia è il punto nodale. Le barche da canottaggio si manovrano con i remi, vincolati allo scafo mediante scalmi. Le canoe, invece, si manovrano tramite pagaie che non sono in alcun modo vincolate allo scafo.

A livello sportivo, addirittura, facciamo capo a federazioni diverse. Noi alla FIC, loro alla FICK.
Ci accomuna solo il quantitativo di battute idiote sul nome delle federazioni, praticamente.

Avete capito?
No, vero? Nemmeno io avrei capito quello che ho detto.
La cosa più semplice è mostrarvi la differenza.

Qui un Bisteccone imberbe si lascia andare all’emozione vedendo i fratelli Abbagnale piazzare il loro Due Con davanti a DDR, Cecoslovacchia e Bulgaria nella finale dei Mondial del 1982.
Mondiali di Canottaggio, Altobelli e Paolino Rossi non c’entran nulla!

Qui, invece, vedete la Canoa/Kayak con un Bisteccone appesantito dagli anni che entra in apnea commentando l’oro olimpico di Rossi e Bonomi nei 1000 K2.

Mentre spiego a F. tutto questo abbiamo messo in acqua il suo kayak e siamo partiti.
Sono molto sorpreso dall’agilità di questa canoa e dalla sua velocità. Ovviamente non ha la manovrabilità e la velocità di uno scafo olimpico in vetroresina, ma F. ha una Yaris e tutto l’equipaggiamento che stiamo utilizzando stava comodo dentro il baule.

Ci muoviamo in direzione nord con l’intenzione di raggiungere la punta di Crabbia e da lì virare in direzione ovest e attraversare il lago in quello che pare essere il punto più stretto.
Abbiamo appena finito di scaldarci i muscoli che ci troviamo già al centro del lago con Omegna che compare improvvisamente all’orizzonte.

Ancora pochi colpi di pagaia e siamo nei pressi della costa Ovest del Cusio.

mappa 1

Da questa parte la sponda sembra più impervia, come se i monti che separano il lago dalla Valsesia si buttassero direttamente in acqua senza addolcire nemmeno un po’ la loro pendenza.
Ma sembra anche molto più suggestiva. Per lo meno in questo tratto mancano spiagge comode e baretti a bordo lago, ma l’acqua è di un verde cristallino e se non fosse per la vegetazione, rigogliosa sino al pelo delle onde, parrebbe di stare al mare.

E infatti, mentre paleggiamo sotto costa verso sud, ci rendiamo conto che ogni piccola insenatura, ogni scoglietto, sono meta di altri canoisti o di intrepidi escursionisti che sono scesi attraverso sentieri disagevoli per raggiungere un piccolo e solitario accesso all’acqua dove godersi la domenica di fine estate.

Anche noi pensiamo di fermarci a fare un bagno, ma visto che vogliamo ancora visitare l’Isola di San Giulio decidiamo di rimandare per non sbarcare fradici e grondanti.

mappa 2

Proseguiamo a sud lungo il litorale per un paio di kilometri e il paesaggio cambia di colpo. La sponda alberata e scoscesa lascia il posto ad una punta sabbiosa e alle prime case del paesino di Pella, sovrastato dall’alta rupe su cui sorge il Santuario della Madonna del Sasso.

Doppiamo il capo e in pochi colpi di pagaia arriviamo, annunciati dalle campane che chiamano a messa, nel porticciolo turistico su cui si affaccia la piazza principale di Pella.

Risalire la corrente – il Lago d’Orta esce a Nord – ci ha un po’ stancato le braccia, ma tra noi e l’isola di San Giulio c’è poco meno di un kilometro. Conviene fare un ultimo sforzo e fermarci direttamente là.

mappa 3

Un po’ come a Venezia, le ville dell’isola hanno la facciata rivolta verso il lago, non verso le strette viette lastricate. Mentre costeggiamo la sponda ovest di San Giulio ci accorgiamo anche di una cosa che, per ovvia che sia, non può che stupire due bimbetti di pianura come noi: le case qui non hanno il box, hanno la rimessa per le barche affacciata sul lago.
E del resto sull’isola non si può circolare se non a piedi, ma è fondamentale avere un barchino, un gommone, un canottino, un materassino con la palma… Insomma, qualcosa che permetta ai pochi abitanti di raggiungere la terra ferma senza dipendere dagli orari del traghetto per Orta.

Arrivo 2

La libertà di movimento è un valore fondamentale per noi motociclisti.
Sapere che, qualunque siano le condizioni della strada e del traffico, noi troveremo un varco in cui infilarci e un metro quadro di terra in cui parcheggiare ci rassicura e ci dona gioia.
Arrivare a San Giulio in kayak è un po’ la stessa esperienza.
Io e F. doppiamo il pontile dei battelli e, come se fosse la cosa più normale del mondo, guadagnamo la terra ferma sotto gli occhi esterrefatti dei turisti.

Approdo 2

Io sbarco tronfio e felice di essere riuscito a filmare il tutto con la mia Git2 nuova, salvo poi scoprire che l’avevo impostata su “raffica di foto” e il massimo che ho ottenuto è un timelapse da mal di mare…

Vabbè, portiamo il kayak in secca su un piccolo scivolo di pietra e iniziamo la visita dell’isola.

Visita che non richiede molto tempo, in realtà, considerando che la circonferenza dell’isoletta non supera i 700 metri.
L’abbazia benedettina Mater Ecclesiae, abitata da un’ottantina di monache, ha sede nell’ex Seminario Diocesano, un edificio di metà ottocento costruito nell’area occupata dal castello medioevale, demolito per l’occasione.
Occupa il centro dell’isola ed è circondata da una stradina pedonale che la separa dalle poche case dell’isola, un tempo riservate ai canonici e oggi per lo più trasformate in lussuose residenze di villeggiatura.

La vera facciata delle case è, giustamente, quella che affaccia sul lago. Le porticine e i cancelletti che danno sulla strada sembrano, invece, anonimi e dimessi.
L’atmosfera – nonostante lo sciame di turisti che invade l’isola – è rilassata e sospesa nel tempo.
La sensazione è che questo piccolo paese non sia cambiato di una virgola negli ultimi duecento anni.

Non è la prima volta che ho questa impressione e mi rendo conto che quando succede è quasi sempre perchè nel posto in cui mi trovo non è permesso l’accesso alle auto.
Questa strada è rigidamente pedonale (credo non si possa nemmeno andare in bicicletta). Non ci sono mezzi di alcun tipo parcheggiati a bordo strada.
Non c’è la macchina del custode, non c’è il pandino dei vigili, il camioncino della monnezza…
È tutto qui. So benissimo che la vita che si conduce oggi sull’isola non ha nulla a che fare con quella dell’ottocento.
Che il riscaldamento a gas e l’acqua corrente hanno reso confortevoli e persino lussuose abitazioni che un tempo sarebbero state umide e gelide per gran parte dell’anno. Che il ristorante davanti a cui passiamo esiste solo grazie alla trasformazione di un insediamento un tempo difensivo in attrazione turistica, ma l’assenza di quello che è il principale simbolo della modernità – l’automobile – mi rende sorvolare su questi altri mutamenti.

La punta Sud-Ovest dell’isola è occupata dalla basilica di San Giulio.
Da terra è quasi impossibile capirne la forma e percepirne le dimensioni. Sia perchè – esattamente come le abitazioni dell’isola – la sua vera facciata si apre sulle acque del lago sia perchè la strada è stretta e non consente mai di abbracciare l’intera costruzione con lo sguardo. A San Giulio manca una piazza, ma è come se quella piazza fossero le acque che – immagino – i fedeli solcavano la domenica mattina con le loro barchette da pesca per assistere alla messa nella Basilica.

La tradizione vuole che la chiesa sia stata fondata nel 390 da San Giulio dopo aver sconfitto i draghi che infestavano l’isola, ma la struttura attuale risale al XII secolo, pesantemente rimaneggiata nel ‘600.
L’esterno mantiene la severità romanica, grazie soprattutto alla pietra scura e all’intonaco bianco. All’interno – dove sono proibite le foto e le riprese – il barocco è preponderante nella zona dell’abside e del transetto mentre le navate sono completamente coperte di affreschi devozionali realizzati tra il trecento e il cinquecento.
Al tardo seicento risale anche la cripta, dove riposano le spoglie di San Giulio.

In un ambiente laterale della cripta si trova un cartello esplicativo che parla del drago devozionale, non visibile al pubblico, conservato nella chiesa.

Il drago – sulle cui radici pagane le spiegazioni glissano clamorosamente – è una statua di metallo completamente snodata veniva condotto fino a qualche decennio fa in processione per propiziare i raccolti sulle sponde del lago.

mappa 4

Ripartiamo dall’isola e in poche palate siamo a Orta San Giulio.
Decidiamo di non sbarcare, ma costeggiamo il lungo lago a ritmo blando, godendoci le belle facciate dei palazzi ed evitando i bagnanti che si tuffano dai moli.

Ricominciamo a spingere quando arriviamo a doppiare Punta Movero.
La spiaggia da cui siamo partiti è dritta davanti a noi e lì ci aspetta un meritato bagno ristoratore.

mappa 5

Ma chi te lo fa fare?
Cosa ti spinge a remare (o pagaiare) come un cretino ad ogni occasione possibile?
Non faresti prima a prenderti un traghetto come tutte le persone normali?

Me lo sono chiesto spesso anche io. Non è la voglia di superare i propri limiti di cui parlano spesso i maratoneti. Quella forse ha giocato la prima volta, ma ormai è passata. Tanto il limite vero da superare è quello di alzarmi alle sette di mattina nel weekend.
È la sensazione fisica che provo in barca – che sia una kirkkovene , una canoa o un materassino di gomma comprato in edicola – che cerco. Il momento in cui la barca trova il suo equilibrio e inizia a scorrere sul pelo dell’acqua. Il rumore della prua che fende le onde. La sensazione di essere parte del paesaggio che sto attraversando, non un semplice spettatore.
Che poi sono un po’ le stesse sensazioni che provo in moto.

E comunque io non sono un canoista, che cacchio!

Bisogna saper perdere, Lombardia, Piemonte

BISOGNA SAPER PERDERE

Se le cose fossero andate come avevo previsto, questo articolo avrebbe dovuto intitolarsi diversamente. Una cosa del tipo

LE VALLI DELLE QUATTRO PROVINCE

Infatti il percorso si sarebbe snodato prima tra Val Curone, Val Staffora , val Boreca, poi attraverso il Passo del Giovà e la Val Borbera per finire attraversando la bassa Valle Scrivia.

Nell’area delle Quattro Province, appunto.
Un territorio accomunato da tradizioni ed usi ma diviso amministrativamente tra le province di Pavia, Piacenza, Alessandria e Genova.

Il programma era chiaro: appuntamento con D. a metà mattina e giù dritti fino a Tortona facendo la A7.
È una palla mortale e spiana le gomme, ma almeno si arriva giù in fretta e rimane più tempo per girare per le valli.
Quando ci incontriamo, D. mi dice che la batteria della sua BMW è al limite e che la moto ha faticato molto ad avviarsi. Speriamo che i tre quarti d’ora d’autostrada la ricarichino, ma un sottile brivido percorre le nostre schiene al pensiero di rimanere a piedi in cima al Giovà.

Si parte. È la fine di Ottobre e fa un gran freddo, ma le previsioni del venerabile Centro Meteorologico Lombardo sono rassicuranti. In giornata, dicono, uscirà il sole e anche in quota la temperatura dovrebbe essere sopportabile.

All’altezza di Bereguardo io sto già congelando, ma il peggio deve ancora venire.
Proprio mentre sopraggiunge alle nostre spalle una pattuglia di Harleysti in formazione da parata dei Carabinieri, Aiko decide di colpo di perdere potenza.
Non mi stupisco troppo, è qualche tempo che con l’umido si impunta quando è fredda, accenna a spegnersi come se per uno o due giri non riuscisse a far scoppiare la benzina nel cilindro.
Poi riparte, ma non è piacevole quando succede uscendo da una curva lenta.
Stavolta però è diverso, per quanto io possa dannarmi con l’acceleratore, il motore inizia a tossire e borbottare e si rifiuta di prendere giri. Non si spegne per miracolo ma mi costringe a fermarmi un attimo.
Accosto in corsia d’emergenza e smanetto con il gas e il rubinetto della benzina fino a che non sembra tornare normale, ma intanto subisco l’umiliazione di vedere gli Harleysti che spariscono all’orizzonte senza nemmeno salutare.

Poco male… Ripartiamo e alla vertiginosa media di 110/120 km/h, con l’orecchio sempre teso a captare la minima variazione nel regime del motore, li ripassiamo (salutandoli, che noi siamo persone civili) poco prima di Casei Gerola.
Fuori dall’autostrada superiamo la periferia nord di Tortona e ci fermiamo per far colazione (la seconda colazione ovviamente) in un baretto di Volpedo.

Caffè, briochina, un bacio di dama che da queste parti non può mancare e si riparte.
Forse.
Quando D. pigia il pulsante d’accensione il rumore è davvero poco rassicurante. Sembra quasi non farcela.

– Io direi che da adesso in poi non la spengo più. Casomai se ci vogliamo mangiare un panino ci sediamo in strada e la lascio accesa…

Decidiamo anche – visto il freddo e i problemi meccanici – di fare una versione ridotta del percorso.
Si tratta di evitare la teribile strada del Passo del Giovà e la Val Boreca.
Da Fabbrica Curone, invece di risalire il versante lombardo del Monte Chiappo, vorremmo passare direttamente dalla Val Curone alla Val Borbera attraverso le frazioni di Gregassi e Pallavicino.

la gesa

Qualche kilometro ancora – in cui Aiko pensa bene di spegnersi di nuovo – e la strada fradicia di rugiada inizia a salire.
A fondo valle ci sono nuvole basse e lattiginose che risalgono lentamente. Mi fermo a far due foto e di colpo ci troviamo immersi nell’orzata.

Il nulla dilaga

Davanti a noi non si vede a un passo.
L’umidità si condensa sulle moto lasciando una patina biancastra come se avessimo guidato nel fango tutta la mattina.

Qualche kilometro oltre Fabbrica Curone la strada, fradicia di rugiada, inizia a salire.  Nuvole basse e lattiginose risalgono lentamente dal fondo della Val Curone, l’umidità si condensa sulle moto lasciando una patina biancastra come se avessimo guidato

Ci sono giorni in cui semplicemente le cose non vanno e bisogna farsene una ragione.
Io non ho mai avuto la stoffa dell’eroe, eppure fatico molto a mollare il colpo in queste situazioni.
Ho sempre una vocina nel cervello, che suona come quella della mia maestra delle elementari, che mi dice che avrei dovuto insistere, essere tenace, che si poteva fare di più, si poteva andare avanti, bastava non aver paura.
Mi piacerebbe sapere se sono l’unico ad avere questa specie di super io giudicante che mi accusa di essere un rinunciatario, se sono l’unico che fa fatica ad azzittirlo quando ce n’è bisogno.

Per dire, tornando indietro abbiamo deciso di scollinare per fare la statale che passa da Pavia e, giunti a Varzi, di nuovo la Maestra Zanderighi si è palesata nel mio cervello:

– Vorrai mica tornare a casa così, vero? Senza nemmeno provare a salirci sulla strada del Giovà? Ma ti pare il caso? Dammi retta…

Fortunatamente non sono da solo, e D. è più furbo di me – o per lo meno non era in classe con me alle elementari – e mi convince a tornare a casa mentre, guardando negli specchietti, nuvole sempre più nere si addensano sui monti dell’Oltrepò.

Aiko va alle corse, Piemonte

AIKO VA ALLE CORSE (#1)

***ATTENZIONE: la struttura descritta in questo articolo è una proprietà privata in cui l’accesso non è consentito.
Tutti gli edifici visitati sono abbandonati, non soggetti a manutenzione e devono essere considerati pericolanti.
Il Motografo non incoraggia nessuno a penetrare nel perimetro della struttura e non si ritiene responsabile per incidenti nè per conseguenze legali.***

– Da questa parte non si passa. Il cancello si aprirebbe anche, ma come lo sposti il jersey?
– Anche qui niente. Se entri con la moto in ‘sto fosso non ne esci più!
– Ci vorrebbe una Beta da trial…

Fiat Abarth

È brutto ammetterlo, ma son venuto sin qui in moto per niente.
Avrei potuto sedermi comodamente in auto con G. e A., godermi l’aria condizionata e la radio e magari anche dormire.
Ma io volevo portare Aiko in un vero circuito. Ero già pronto. Stamattina ho anche messo il nastro isolante sul faro come i veri gentlemen rider.
Avevo persino fatto una finta lavagna di segnalazione per farmi riprendere mentre passavo sul rettilineo dei box incitato dai miei tecnici.
Motografo, numero 42, ovviamente.

2016-10-10_12-56-49

Un modo per entrare deve esistere. C’è pure chi ha pubblicato il video di un giro di pista. E poi l’erba al centro dell’anello è stata falciata di recente. Ma dopo un’ora che giriamo in tondo ci arrendiamo.
Scavalchiamo il famigerato fosso e decidiamo di entrare a piedi.

Quello che ci stupisce subito sono le condizioni relativamente buone della pista.
Il fondo è stato rifatto l’ultima volta nel 1980, ma è migliore dell’asfalto di Viale Antonini a Milano.

Corsia box

Tutte le strutture dell’autodromo sono in rovina, scrostate, arrugginite. Devastate dagli anni e dalle alluvioni del Po. Ma al tempo stesso sembra che da un momento all’altro la Ferrari di Merzario potrebbe comparire dall’ultima curva, annunciata dall’urlo del dodici cilindri.

Sarà la campagna intorno, sarà lo stato straordinariamente buono della pista o il fatto di non trovarmi quasi mai “al chiuso”, ma la sensazione che provo non è la sottile inquietudine che mi prende di solito visitando vecchie fabbriche, capannoni e cascinali abbandonati.
Non è una sensazione migliore, ma è diversa.
Gli stabili industriali abbandonati, di solito, mi fanno pensare che una qualche catastrofe abbia cancellato la vita da quella parte di mondo; qui mi sembra che qualcosa abbia congelato il tempo. Domani, forse, l’umanità che animava l’autodromo potrebbe risvegliarsi di colpo e vedremmo piloti dalle basette spropositate aggirarsi per i box semidistrutti in attesa di poter prendere il via sulle loro March, Martini ed Osella.
Qualcosa di simile l’avevo provato solo esplorando le conche abbandonate del Naviglio Pavese. Anche lì pareva che da un momento all’altro l’attività potesse riprendere come se il tempo non fosse trascorso.

Dove sono?
Avete ragione, non ve l’ho ancora detto.
Sono sulla pista dell’autodromo di Casale Monferrato, a Morano sul Po.
Un piccolo circuito inaugurato nel 1973 e chiuso nel 1977. Nel 1980/81 si era pensato di rimetterlo in funzione e fu riasfaltato, ma per mille motivi non se ne fece nulla.

Arrivarci non è facile.
Ovviamente non ci sono indicazioni per raggiungere un impianto chiuso trentanove anni fa. E sono pronto a scommettere che una buona parte degli abitanti di Casale, se non addirittura di Morano, non sa nemmeno che il circuito esiste ancora.

Campi solcati solo da tratturi sterrati e boschi coltivati di pioppi lo circondano da tre lati, il fiume lo chiude a sud, scorrendo a poche decine di metri da una veloce variante opposta al rettilineo dei box. Immagino poi che qui in autunno ci sia una nebbia in grado di nascondere anche la torretta di controllo che è l’unica costruzione ad innalzarsi per più di qualche metro sull’orizzonte.

Oggi per fortuna il tempo è decente. C’è il solito cielo lattiginoso che tormenta le mie uscite fotografiche e che mi regala immagini piatte e prive di contrasto, ma non piove, non fa freddo e la visibilità è ottima.

La linea d'arrivo

In verità io non mi sono ancora dato pace di non essere riuscito a entrare con la moto. Osservo meglio l’immagine satellitare e mi rendo conto che dall’ultima curva si stacca una stradina che raggiunge un casale e poi dei campi.

Edificio Box

Mentre G. e A. continuano a perlustrare il rettilineo di partenza, vado in avanscoperta.
La stradina c’è. Si stacca dal tracciato, lambisce un’edicola con una madonnina, oltrepassa il fosso e si inoltra in un bosco di pioppi troppo ben tenuto per non essere curato da qualcuno.
In fondo si intravede una cascina.
A quanto pare i lavori di ristrutturazione sono stati interrotti quando si è capito che l’autodromo non sarebbe più rinato.

Cascinale - Interno del salone

Se venite qui e decidete di esplore il cascinale, mi raccomando, fate molta attenzione.
Lo stabile è solido e in ottime condizioni, mancano solo gli infissi, ma a preoccuparmi è il sottotetto.
Uno stabile ristrutturato alla fine degli anni ‘70. Oltretutto a Casale Monferrato.
Vi dice nulla?
Nulla nulla?
Dai, cazzo, l’Eternit! Tutto il sottotetto è fatto di lastre ondulate di Eternit, prodotte a pochi kilometri da qui.
Cancerogeno sì, ma a kilometro zero, almeno!

Cercate di rimanere nelle vicinanze della cascina il meno possibile, non alzate polvere e state attenti a quello che calpestate. E se fossi in voi eviterei di entrarci in una giornata ventosa.

Tutto sommato non c’è molto di interessante da vedere.
Grandi stanze vuote, un bel giardino e poco di più.
All’interno qualche scritta a bomboletta. Una morte disegnata male e un pentacolo tutto storto, segno che tra i ragazzini locali il satanismo d’accatto fa ancora presa.

Cascinale - Interno di una stanza del primo piano

Ah, c’è anche un cancello che effettivamente permetterebbe di accedere al perimetro dell’autodromo.
Peccato che un rampicante enorme l’abbia completamente avviluppato. Non è da qui che si passa!
Ritorniamo in pista e decidiamo di farne almeno un giro a piedi.
Io, che non mi rassegno, faccio anche brum brum con la bocca.

Variante

Bizzarro. Ogni metro e mezzo circa troviamo una mezza noce.
Sulla pista, sul tetto dei box, sulla cima della torretta.
Noci. Noci. Ancora noci.
Iniziamo a fare le supposizioni più azzardate.
Un venditore ambulante avrà fatto un giro di pista con l’apecar pieno?
Magari uno dei satanisti della cascina?
Solo a tarda sera un conoscente che vive in campagna avrà la risposta: cornacchie.
Le cornacchie prendono la noce, la portano in quota e la fanno cadere a terra in modo da aprirla.
Meno male che non è stagione, o avremmo rischiato di essere colpiti.

Il rettilineo dell'arrivo

Sul rettilineo sud una trazzera sterrata si stacca dalla pista.
Fuori il telefono e cominciamo a consultare la mappa compulsivamente.
La strada c’è, ma a quanto pare parte da una cava recintata davanti a cui ci siamo arenati venendo qui.

Proseguiamo a piedi. Il tracciato è molto breve, ma sembra davvero una bella pista. Veloce ma non noiosa. La forma ricorda una T schiacciata, non così diversa, se vogliamo, dalla pianta di Misano.
La prima curva – una sorta di parabolica in sedicesimo – immette in tre rettilinei veloci raccordati da varianti da prendere in pieno. Da qui in poi si entra nella parte finale del tracciato, un piccolo motodrom che con tre tornanti porta all’ultima, veloce, variante verso destra e da lì al traguardo.

Il percorso opposto ai box

Quel mi stupisce, soprattutto pensando che all’epoca le gare si guardavano per quanto possibile dal prato, è che l’area del circuito è assolutamente in piano. In piano la pista e in piano i dintorni.
Dai tetti della corsia box si vede praticamente solo il rettilineo. L’unico punto da cui si possa godere una vista completa del circuito è la grande torretta di osservazione che scaliamo fino alla terrazza sul tetto.
Immagino che negli anni ‘70 mettessero degli spalti di legno. O che la gente si affollasse all’interno dell’anello sciamando da un lato all’altro per avere la visuale migliore sulle curve.

Sul cordolo

Mi immedesimo in un fotografo dell’epoca. Mi immagino, sdraiato nell’erba al centro del tornantino, cercare di abbassare il più possibile il punto di ripresa per congelare in uno scatto le ruote delle monoposto che si bloccano stridendo e sfiorando il cordolo in entrata.

Avrete notato che continuo a parlare di auto.
C’è un motivo: non riesco a trovare una singola testimonianza di motociclette su questa pista.
Sono certo che ci siano passate. Magari ci ha vinto proprio una di quelle BSA già vecchie allora di cui Aiko è la replica made in Japan.
Lasciatemelo credere.
Lasciate che mi immagini contemporaneamente pilota con ginocchio in fuori e occhialoni d’ordinanza, fotografo a bordo pista e commentatore che dalla cima della torretta annuncia il mio stesso trionfo.

Piemonte, Verbano

UNA MONTAGNA, DUE LAGHI E UN FIUME

“Allora lo facciamo questo famoso giro sugli argini del Po?”
“No, dai, portami tu in un posto che non conosco!”

Fregato. Conosco Abdul Mariscos di MLGP da un annetto, e da subito ci siam detti che dovevamo farci un giro assieme.
La guida avrebbe dovuto essere lui. Fuoristrada facile per fermoni con moto da strada (sì, sto parlando di me!).
E invece all’ultimo ha chiesto a me di stupirlo.

Immaginatevi l’ansia da prestazione.
Io in moto sono arrivato al massimo in Francia, lui c’è andato fino a Dakar!
Comincio a spulciare ossessivamente il file destinazioni per gite motografiche (giuro, esiste davvero) per trovare qualcosa di adatto.

Butto giù un itinerario al volo e ci diamo appuntamento per l’indomani all’autogrill Verbano Est di Arsago Seprio.
Il tempo di un caffè e ripartiamo. Diramazione Gallarate-Gattico fino a Vergiate e poi A26 in direzione Gravellona.

“Ormai sono abituato a non tirare tanto” mi dirà più tardi Abdul “anche in autostrada preferisco non fare più dei 110/120.”
Petizione di principio onorevole, ma che contrasta un po’ con la sua scelta di sfilarmi a destra ai 170 a meno di un kilometro dalla nostra uscita.
Kilometro che passo riconrrendolo, suonando il ridicolo claxon di Aiko e sbracciandomi come un pazzo.
Per fortuna mi intravede nello specchietto e usciamo come previsto a Carpugnino.
Dove è il mio turno di fare una cappella.
Sono talmente certo che la strada che sale al Mottarone parta dal centro di Stresa che non guardo nemmeno le indicazioni. E giro meccanicamente verso la cittadina rivierasca quando avrei dovuto puntare subito a sinistra verso monte.
Poco male. Il tempo di liberarci da un ingorgo di Maserati, Morgan, Porsche, MG e vecchie Lancia d’epoca e risaliamo verso Gignese.

Da qui ci sono due opzioni: allungare verso Armeno e salire sul Mottarone dalla provinciale che noi percorreremo in discesa oppure salire – come noi – direttamente in vetta attraverso la strada Borromea.
La Borromea è una strada privata (di proprietà dei Conti Borromeo, gli eredi di San Carlo e del Cardinal Federigo mica pizza coi ciccioli) e si paga un pedaggio di 5€ a/r (10 se siete in auto).
Soldi che una volta cambiati in monetine vengono probabilmente riversati nel deposito blindato che i Conti si son fatti costruire sulla cima di una collina.
O messi dentro qualche materasso in uno dei loro palazzi, forse.
Sicuramente non vengono usati per la manutenzione della strada, a giudicare dallo stato pietoso dell’asfalto.
Iniziamo ad arrampicarci tra le buche, accompagnati dal rumore ritmico delle pietruzze che si staccano dalla strada sbatacchiando sui parafanghi e sulla coppa dell’olio.

L’ultima volta che sono salito sul Mottarone, credo nel 2004, ero al seguito di un gruppo di amici psicopatici aveva deciso di scalarlo in bicicletta.
Avendo poco da fare nella vitami ero offerto di fare da ammiraglia-meccanico-commissario di pista.
E così io e un’amica fotografa ci eravamo goduti la salita comodamente svaccati sui morbidi sedili di Pernilla – la riprovevole Skoda postsovietica unico mezzo di trasporto di un Motografo universitario – mentre i quattro pazzi arrancavano su queste ripidissme rampe.

Il tracciato della Borromea è davvero bello ma oltre alle condizioni dell’asfalto è la completa mancanza di protezioni laterali a lasciarmi perplesso.
Da un lato è un bene: almeno non ci sono i fottuti guard rail/ghigliottina che impestano le nostre strade senza che nessuno pensi minimamente di ripararli. Ma d’altro canto la strada è stretta e la montagna ripida, uscire da uno di questi tornanti può voler dire fare un volo di parecchie decine di metri.

Salendo le condizioni della strada migliorano e – incredibile a dirsi – diventano addirittura ottime una volta che usciamo dal tratto privato e ci ricongiungiamo alla provinciale che sale da Armeno.
Ormai siamo praticamente in vetta. Passiamo sotto alla curiosa slittovia, parcheggiamo e affrontiamo gli ultimi metri di dislivello a piedi. Mentre noi saliamo, cominciano a venir giù dalla cima – il volto distrutto dalla fatica – i partecipanti dello Sky del Motty, che guardano con malcelato odio il povero Abdul che ha la sola colpa di godersi la sua Marlboro a 3000 metri.

Il Lago d'Orta

La vetta del Mottarone ha qualcosa in comune con il Mont Ventoux.
Come il più famoso cugino d’oltralpe, infatti, non è altissimo (1.492 metri questo, 1.912 il ventoux), ma il vento e le intemperie che spazzano la cima del monte creano un paesaggio desertico, che contrasta con il ricco bosco che ne ricopre le pendici.
La roccia affiorante e un’erba secca e giallastra monopolizzano il paesaggio violato dagli impianti di risalita delle piste del piccolo comprensorio sciistico.

In vetta l’incubo di ogni fotografo di paesaggio.
Il cielo è velato. Anzi, è proprio bianco.
Perfetto per un ritratto, magari, ma le Prealpi del Verbano sotto di noi sono immersi in una luce morbida e soffusa che annulla completamente il contrasto.
Sembra quasi di guardare un fondale dipinto ad acquarello.
L’unica speranza di portare a casa un’immagine dignitosa è affidata ai pochi squarci nella coltre di nubi sopra Laveno, che lasciano filtrare qualche timido raggio di sole che illumina il bel golfo con un effetto suggestivo.

Verbano

Dalla cima, in teoria, si dovrebbero vedere tutti i sette laghi (Maggiore, di Varese, di Monate, di Comabbio, di Mergozzo, di Biandronno e d’Orta), ma con questa foschia è già un buon risultato intravedere la parte sud del Verbano a destra.

Quando ho finito di provare invano tutte le possibili coppie di tempo e diaframma a caccia dell’immagine più incisa, torniamo al parcheggio appena sotto la vetta per darci alle nostre attività preferite.
Tornanti e sterrato? Sbagliato! Formaggi, salumi e polenta!

Prima acquisto alla bancarella di un piccolo produttore una slinzega, un cacciatorino di capra e una mezza formaggella, poi infiliamo le gambe sotto il tavolo del rifugio Meut Rond e inanelliamo sottaceti a volontà, tagliere misto, polenta e spezzatino di cervo e un bello strudel con la crema pasticcera.

“Caffè?”
“Doppio, grazie!”

Ci verrebbe voglia di buttarci sulle panche fuori dal rifugio e dormire quelle 6/12 ore, ma la strada è ancora lunga e ci rimettiamo in moto.

La discesa dalla strada di Armeno è bellissima (anche questa mi ricorda un po’ il Ventoux) e quando arriviamo giù ci verrebbe quasi voglia di risalire e fare un altro giro.
Siccome Abdul non è il mio ideale di donna, ho escluso la romantica cittadina di Orta dal nostro itinerario e ho preferito risalire la sponda del Cusio verso nord fino ad Omegna.

Nella città natale del Vate ci fermiamo solo per il tempo di fare un paio di foto allietati dalle casse della ruota panoramica del lungolago che trasmettono un’esecuzione da balera di Notti Magiche.

Notti magiche.
Inseguendo un gol.
Sotto il cielo di un’estate italiana.

Nel 2016.

Cusio

Vabbè, lasciamo a fatica questa sacca di resistenza anni ‘90 e ripartiamo con l’idea di raggiungere Varallo Sesia passando da Arola e Civiasco.
Una strada divertentissima, con un tracciato tutto curve morbide attraverso i boschi delle Prealpi.
Peccato che un paio di Kilometri a monte di Arola saremo bloccati. Strada chiusa per tutto il pomeriggio per un rally.

Torniamo a valle e seguiamo un percorso alternativo.
Appena raggiunta la strada principale mi fermo in uno spiazzo da cui parte una stradina sterrata.
L’idea è concordare con Abdul se tentare effettivamente di raggiungere Varallo o se puntare direttamente su Novara per tornare a casa.
Peccato che Abdul mi ignori completamente.
Vede solo la stradina sterrata. E si infila a cannone senza degnarmi di uno sguardo.
Faccio per seguirlo. Sono a metà della salita quando me lo vedo tornare giù a tutta manetta.

Finito sto teatrino, confabuliamo un attimo e decidiamo di puntare a sud per tornare all’autostrada.
Facciamo anche un cambio di moto. Per qualche kilometro io guiderò la sua R80 G/S e lui monterà Aiko.
La prima cosa di cui mi accorgo è che diversamente dalle pronipoti da fighetto milanese, l’R80 è davvero leggera. Piccolina. Maneggevole come una bicicletta.
La seconda scoperta è che i carburatori sono davvero vicini alle gambe.
L’avrò guidata per dieci kilometri prima di tornare in groppa ad Aiko e li ho urtati dieci volte.
Con questi pochi kilometri ho finalmente realizzato il sogno di quando da bambino vedevo sotto casa di mia nonna un R80 che si fingeva la special Paris-Dakar.
Era una G/S standard, ma trasformata in casa dipingendo il serbatoio coi colori della Marlboro e facendo – dettaglio che nemmeno nei sogni più zarri del più bavarese degli ingegneri BMW è mai esistito – le teste dei cilindri rosse.
Ma soprattutto mi tolgo una grande soddisfazione. Saluto tutti i motociclisti che incontro. Harley, enduro, scooteroni… Tutti!
E tutti sgranano gli occhi increduli. Uno in BMW che saluta? E poi cosa, ancora? Un’Harley che piega?

Entriamo a Romagnano Sesia ormai nel mood del ritorno quando Abdul inizia a suonare e sfareggiare. Mi affianca.
“Vuoi fare un po’ di argine?”

Terrore sulla spiaggia

E in un battito di ciglia siamo sull’argine – sterrato – del Sesia.
Davanti Abdul che finalmente sfoga il suo desiderio di sterrato.
Dietro – un po’ più cauto – io, che costriogo Aiko a barcamentarsi tra sassi e pozze e ne esco infangato come i bambini quando c’è il temporale.

“Ce la fai a scender di qui che andiamo in spiaggia a far due foto per il Motografo?”
“Da lì? Ma figurati…”
“Ma sì che ce la fai!”
“Ma no, che cazzo dici, mi uccido! Mica ho una motoretta da trial! Questa pesa!”
“Dai che ce la fai”
“Noooo…. Per me ormai è finita! Lasciami qui, salvati almeno tu!”

Questo dialogo melodrammatico surreale – sotto gli occhi di un divertito ciclista – si è concluso con un atto di imperio del buon Abdul che si è attaccato al mio paramotore e mi ha praticamente tirato giù di peso da una scarpatina di un paio di metri.

Le due splendide vecchine

Non so come sono sceso e non so nemmeno come sono risalito, ma la foto delle due moto a bordo fiume ha, per me, un valore che va molto oltre quello – discutibile – della pura estetica.

Emilia Romagna, Italia, Lombardia, Piemonte

I TRE PASSI D’APPENNINO (GIOVÀ, BRALLO, PENICE)

290 km circa con andata e ritorno da Milano.

Secondo il principio di indeterminazione di Sheene-Heisemberg, non è possibile conoscere contemporaneamente la posizione di un motociclista e la sua velocità.*
Il concetto di “orbita”, quindi, è sostituito da quello di orbitale, ossia la parte dello spazio entro la quale è massima la probabilità di trovare un motociclista.

I ricercatori del CERN hanno recentemente pubblicato uno studio in cui si descrive l’orbitale della città di Milano, considerato del tipo “a doppio lobo” (orbitale p).
I due lobi dell’orbitale sono orientati nord-est/sud-ovest e giacciono paralleli alla pianura,
Se il lobo nord si allunga da Lecco verso le alpi, arrivando a toccare Chiavenna e Madesimo, quello sud investe gli Appennini là dove la catena va a formarsi, toccando le province di Pavia, Piacenza, Genova e Alessandria.

In parole povere, lo studio dimostra che se in una domenica pomeriggio voi voleste cercare un motociclista milanese, avreste la massima possibilità di incontrarlo tra Lecco e Sondrio o nell’Oltrepò Pavese.

Io sono un motociclista e sono milanese, quindi non faccio eccezione.
Che sia inizio primavera, quando i primi caldi invogliano a far girare un po’ la moto per scrollarle di dosso l’umido accumulato sotto i diluvi invernali; o che sia ormai autunno inoltrato, quando una domenica di sole è un regalo inaspettato da cogliere all’improvviso, senza aver pianificato nulla, poco importa.
Esco di casa, imbocco l’A7 e immancabilmente finisco a Varzi.

Al Passo del Penice c’è un bar/ristorante – chiamarlo rifugio mi pare eccessivo – ma dal parcheggio uno potrebbe pensare a un concessionario di moto.
Praticamente chiunque abbia una motocicletta tra Milano, Lodi, Piacenza e Pavia prima o poi passa di qui e si ferma per un caffè. Di solito si sale da Piacenza lungo la bella e veloce Statale 45 (velox praticamente ovunque, fate i bravi e non esagerate con la manetta) e poi affrontando il versante più ripido del passo. Si sale da Bobbio e si arriva su davvero in quattro tornanti.
Quel coso strano nel parcheggio, una specie di mappamondo con sopra una statua, non è un simbolo massonico, bensì un monumento votivo a San Colombano, santo che proprio qui è stato proclamato patrono dei motociclisti nel 2002.

Se invece siete dei devoti old school, bastano poche curve ancora per raggiungere la vetta del monte ed il Santuario di Santa Maria, seicentesco, che è nettamente più interessante.
Più interessante è anche la vista. Dal ristorante del passo non si vede nulla. Troppi alberi tutto attorno, la vetta incombente del Penice da una parte, nessun sentiero sensato percorribile…
Salendo in vetta, invece, finalmente si esce dal bosco e lo sguardo spazia libero in tutte le direzioni, tra Lombardia, Emilia e Liguria.

Visto che il passo del Penice è meta della maggior parte degli smanettoni invasati di tutta la Lombardia, gente che a ogni curva cerca di mettere il gomito a terra disinteressandosi di concetti basilari come “non uscire contromano da una curva cieca”, negli anni ho cercato percorsi alternativi per godermi queste colline senza dovermi continuamente preoccupare di un novello Bautista che mi scentri nel tentativo di passarmi con una staccata al limite in discesa.

Uscito dall’autostrada mi lascio alle spalle Voghera senza dimenticare di dedicare un pensiero alla sua casalinga, simbolo della mediocrità assoluta e principale responsabile dell’esistenza di aberrazioni come “Ti lascio una canzone”.
Mi metto in marcia verso sud lungo la statale 461 del Penice, che per ora mantiene un andamento sostanzialmente rettilineo e abbastanza noioso.
Supero Retorbido – una squallida storia di gossip nella famiglia reale sta dietro a questo nome, suppongo – e Rivanazzano e proseguo ancora dritto come un fuso verso Varzi.

***A Nazzano, la frazione alta di Rivanazzano, c’è un bel castello dell’undicesimo secolo ma vi avviso: se appena appena un germe giacobino alberga nel vostro cuore non andateci, o vi ritroverete a far barricate inneggiando alla ghigliottina. Il castello – meravigliosamente conservato – che incombe sulla Val Staffora è, infatti, la residenza privata di una nobile famiglia della zona.***

Poco prima di Varzi, a Ponte Nizza, buttatevi sulla destra seguendo per San Ponzo Semola.
E non prendetevela con me, che ci posso fare io se nella bassa pavese in Oltrepoò si divertono a dare nomi ridicoli ai paesi.
Superate il paese seguendo le indicazioni per le grotte. Poco dopo l’abitato, sulle prime rampe della collina, una strada sterrata si stacca dalla principale, mentre sulla vostra destra si trova un bel vigneto.

Autunno

Potreste, volendo, salire per la sterrata con la moto, ma io vi consiglio caldamente di lasciarla qui, accanto alle belle vigne, e di incamminarvi a piedi. Una mezzoretta di cammino facile facile vi porterà alle grotte di San Ponzo.
È buffo a pensarci: sono un senza Dio se mai ve ne furono. Non sono battezzato, non vado in chiesa, tempio, moschea o sinagoga e l’unica cosa in cui credo – l’uomo – fa del suo meglio per farmi dubitare, eppure sono sempre qui a parlarvi di chiese, eremi e templi di ogni tipo…
San Ponzo, si dice, fu un soldato della Legione Tebana fuggito alla decimazione e rifugiatosi da queste parti dove, quando non convertiva al cristianesimo i locali – per maggiore incazzatura dell’Imperatore – viveva da eremita in queste caverne. Le sue ossa, pare, sono conservate sotto l’altare della piccola chiesetta. Altri dicono che queste ossa sarebbero di un altro Ponzo, anche lui eremita, martirizzato durante le lotte con gli eretici nel medioevo.

Grotte di San Ponzo - Cappella dell'Eremo

Poco importa, francamente. E comunque, probabilmente sono le ossa di un pastore di capre o di un vignaiolo. Ciò che conta è la bellezza di questo luogo dove una modesta chiesucola romanica, poco più di una capannuccia di sassi, sta incastrata nella grotta in cui viveva il santo: un ampia spaccatura nella roccia che si innalza di colpo, trasformando d’improvviso il paesaggio da quello di una dolce collina a quello di un aspro dirupo.
Pochi metri più in là una seconda grotta, dove pare il santo dormisse.
Rispetto al piano del sentiero c’è da arrampicarsi sulla roccia verticale e liscia per circa tre metri. Il CAI ha messo delle corde fisse e dei ferri per aiutare nella salita e, soprattutto, nella discesa. La devozione popolare dice che il pellegrino che sale in questa grotta a piedi risolverà ogni problema di mal di schiena e dolori reumatici. Resta da capire dove diavolo un pellegrino coi reumatismi trovi l’agilità per salire fino a lì.

Grotte di San Ponzo - la grotta miracolosa

Ripresa la moto, torniamo sulla strada principale e continuiamo a salire verso Varzi (bel borgo medioevale, vale la pena di fermarsi una mezzora a girare per le sue strade). Entrando in paese troverete un benzinaio. Se non avete ancora fatto rifornimento, fatelo ora, che da qui in poi potete scordarvi di trovare pompe lungo la strada.

Passiamo velocemente oltre, che vi ho promesso tre passi appenninici e non ne avete ancora visto mezzo! Appena fuori Varzi, in località Casa Ien, lasciamo la statale del penice e pieghiamo a destra seguendo il Torrente Staffora verso Brallo di Pregola e il passo del Giovà. Seguiamo la provinciale 186 (Del Brallo) sino a Mulino San Pietro e, poi, giriamo a destra per il Giovà, prendendo prima la provinciale 48 e poi – per non farci mancare nulla, la provinciale 90 che passa da Cegni.
Ora, è giusto che io sia onesto con voi. Preparatevi a percorrere una delle peggiori strade del Nord Italia. Probabilmente avrebbe senso tenersi sulla 48, che tanto al Giovà ci sale lo stesso, ma il mio dovere è raccontarvi la strada che ho fatto io, o mi sbaglio?
La provinciale 90, prima di tutto, è stretta. Stretta che quando incontrate un altro motociclista che scende nel senso opposto le vostre dita, protese nel classico saluto, sfiorano le sue.
A meno che, naturalmente, non sia un guidatore di BMW. Allora non c’è pericolo, tanto non vi saluterà.
L’asfalto è rovinato. In certi punti la strada è proprio franata e anzichè cercare di ripristinarla è sembrato più pratico colare asfalto nell’avvallamento e via andare**.

Fino a Cegni la strada è ripida e tortuosa, poi prosegue abbastanza rettilinea sulla costa del monte Chiappo (ehi, non prendetevela con me, già ve l’ho detto che ‘sta gente fa a gara a dare nomi assurdi ai posti!). In questo tratto è frequente che la vista si apra ad abbracciare la Val Staffora, e questo è il motivo principale per cui vale la pena di affrontare questa stradaccia!

0018 - La luce soffusa del primo autunno (SP 90 strada del passo del Giovà)

Raggiunto il Passo del Giovà si lascia il Monte Chiappo e si affronta il versante del Monte Lesima. La provinciale 88 corre in costa con un andamento relativamente poco tortuoso fino al passo del Brallo.

Autunno

Dei tre passi il Brallo è certo il meno scenografico, salvo dare il nome ad un personaggio che è oggetto di culto da queste parti.
Se volessimo salire al Penice dalla Lombardia e scendere verso Piacenza, a questo punto potremmo restare in costa e fare la provinciale 89 che si reinnesta sulla statale del Penice a pochi tornanti dal valico.
Ma è una strada del cacchio. Fa schifo quasi quanto quella del Giovà e non ha nessuno scorcio paesaggistico. Corre, stretta e male asfaltata, in mezzo ai boschi che chiudono la vista da ogni lato. Lasciate perdere. Scendete, invece, verso la Val Trebbia.

La luce soffusa del primo autunno

Da Brallo di Pregola potreste, per esempio, percorrere ancora la 186 verso Ponte Organasco staccandovene, come ho fatto io, all’altezza di Pratolungo seguendo per Lago.
Ma potreste scegliere una qualsiasi delle provinciali che scendono in Emilia.
Sono tutte strette e tortuose e ripide, ma di solito ben tenute.

Sul fondo valle seguite per Bobbio, godendovi la bella Statale 45. Ve l’ho detto di stare attenti ai velox? E allora datemi retta, mica che poi venite a lamentarvi con me se vi arriva una multa gigante!

Bobbio – lo dico per i foresti – nulla ha a che vedere con gli omonimi piani.
Anzi, onestamente nulla ha a che vedere con i piani in genere. Credo che sia un po’ in pendenza persino la piazza del mercato.
Per motivi inspiegabili il passo del Penice non è gran che segnalato in paese. Per sicurezza seguite per Campore e poi rimanete sulla statale 461.
Su questo versante si tratta veramente di fare poche curve e arriverete a quel ristorante di cui vi parlavo all’inizio.
Preso il caffè? Visitato il santuario?

Bene, da qui è – letteralmente – tutta discesa.
La statale verso Varzi è molto più rettilinea e, pochi kilometri sotto il passo, esce dal bosco e prosegue tra i pascoli assolati con un bel tracciato e alcuni scorci panoramici.

È giunto il momento di tornarcene verso casa, dite?
Momento! È il caso che finalmente vi riveli il vero, unico, motivo di questa gita.
L’Oltrepò di Pavia, certo, è terra di colline splendide ma inaspettatamente aspre, di belle strade di montagna e di santuari nascosti nei boschi.
Ma, soprattutto, è terra di salami!

Il salame di Varzi è un’istituzione. Di più: è una leggenda. Ma che dico: è una fede.
Io mi rifornisco qui, dove compro anche dei mieli straordinari e dei formaggi da far resuscitare i morti, ma qualsiasi salame del consorzio è una certezza.

Souvenir d'Oltrepò

***All’attenzione del salumificio Thogan Porri e dell’azienda agricola Oramami: io vi ho citati perchè sono seriamente un fan dei vostri prodotti, non mi aspetto nulla in cambio. Ma se volete coprirmi d’oro (o di salame e formaggio, che è meglio), trovate i miei contatti nell’apposita sezione***

Ecco, ora che il vostro zaino è pieno di delizie potete tornare verso casa!

VARIANTE: VOLPEDO E LA PITTURA SOCIALE

Se non avete voglia di camminare nei boschi di San Ponzo o se semplicemente siete amanti dell’arte, potete, arrivando da Milano, uscire dalla A7 a Castelnuovo Scrivia anzichè a Casei Gerola e seguire le indicazioni per Volpedo.
Qui, oltre all’ennesima pieve romanica (pare che in ‘sta zona spuntino ad ogni pioggia come i funghi), potrete visitare i luoghi di Giuseppe Pellizza.
Lo studio/casa/museo non offre grandissime attrattive, a meno che non siate dei veri appassionati di Pellizza: qualche opera minore (ritratti dei genitori), la biblioteca del pittore e i suoi attrezzi.
È il Museo Didattico – che affaccia sulla piazzetta in cui è ambientato il capolavoro del pittore – a meritare davvero una visita: al piano interrato, infatti, è possibile vedere una bella installazione multimediale che ricostruisce la figura di Pellizza e il percorso di elaborazione del quadro simbolo del movimento dei lavoratori: Il quarto stato.

Entrambi i siti sono aperti grazie all’opera dei volontari del paese, con i quali è assai piacevole fermarsi a chiaccherare e da cui farsi raccontare aneddoti sulla vita di Pellizza stesso.
Per questo, vi prego, non fate i pezzenti come al solito. Lasciate un’offerta per il mantenimento del museo!

Lasciate Volpedo e rimettetevi in marcia lungo la Val Curone. Seguite le indicazioni per Pozzol Groppo prima e poi per Biagasco e, infine, Ponte Nizza, dove ci riallacciamo all’itinerario originale verso Varzi.

*= Il teorema è stato recentemente messo in discussione dallo sviluppo tecnologico. I laboratori della Polizia di Stato, infatti, dispongono dei nuovi microscopi a scansione T-Red e Auto-Velox che pare siano in grado di rilevare posizione, velocità e identità di un singolo motociclista.
**= Questo era vero l’ultima volta che l’ho percorsa. Se nel frattempo la strada è stata migliorata, fatemelo sapere!